Alfonsina Strada (1891-1959) è la corridora che nel 1924 partecipò al Giro d’Italia, tra lo stupore, lo scherno e l’irritazione di molti. Alfonsina fu, infatti, la prima e unica donna a partecipare al Giro d’Italia, in tutta la storia di quella gara ciclistica. Alla prima conferenza stampa, la «Gazzetta dello Sport» non scrisse per esteso il suo nome, Alfonsina, per evitare che già si capisse che una donna fosse stata ammessa al Giro. Nel 1917, Alfonsina aveva preso parte al Giro di Lombardia (nel quale era presente, tra i ciclisti, anche Costante Girardengo, il primo vero campionissimo del ciclismo italiano, che si complimentò più volte con lei, per la forza fisica e per la tenacia sportiva). La scelta di partecipare al Giro d’Italia fu dettata, per Alfonsina, anche da ragioni economiche, non solo sportive, con la speranza cioè di vincere qualcosa, o, comunque, di affermarsi nel mondo del ciclismo vero. Non senza polemiche (e pregiudizi), dunque, la «Gazzetta dello sport», che organizzava il Giro d’Italia, accolse la sua iscrizione, iscrivendola alle 12 tappe di quell’anno, per un totale di ben 3613 km, su di un tracciato molto impegnativo. Ebbene, su 90 partecipanti iscritti, in quel 1924, arrivarono al traguardo finale soltanto 30 corridori; tra questi 30 valorosi corridori, c’era Alfonsina Strada, con il numero 72 stampigliato sulla maglia. Ai vari traguardi, di tappa in tappa, dopo l’iniziale scetticismo e gli sfottò, i tifosi la accoglievano con fiori e bande musicali, le davano premi in danaro, e ne cercavano l’autografo. Un articolo della «Gazzetta dello sport» la definì «avanguardista del femminismo», modello per tutte le altre donne d’Italia, e portabandiera di ben altre richieste (e di ben altre conquiste).
Durante la tappa Perugia-L’Aquila, oltre alle tante forature, Alfonsina dové pure affrontare la rottura del manubrio della sua bicicletta, che, comunque, riparò utilizzando un manico di scopa, donatole da una contadina che guardava la gara dal bordo strada. Per via delle quattro ore di ritardo accumulate sul vincitore di quella tappa, Alfonsina fu squalificata. I giudici, comunque, dopo lungo confronto, le concessero di continuare a partecipare alla tappe successive, ma senza che i suoi tempi fossero più conteggiati, ai fini della graduatoria finale del Giro. Le riconobbero pubblicamente forza e coraggio, per aver portato a termine l’impresa, tagliando il traguardo finale.
Dopo quell’anno, però, le fu sempre negata la partecipazione alle successive edizioni del Giro d’Italia, e Alfonsina si guadagnerà da vivere, dapprima, girando l’Italia e l’Europa, con spettacoli circensi; poi, aprendo e gestendo un negozio di vendita e riparazione di biciclette, a Milano.
Di recente, il romanzo di Simona Baldelli, Alfonsina e la strada (Sellerio, 2021), ha raccontato la vita e le imprese della corridora, iniziando con un riferimento alla fatica e alla solitudine che gli sportivi affrontano, tutti i giorni della loro vita agonistica, e che Alfonsina, in quanto donna, dové affrontare in modo molto più pesante, rispetto a tanti altri suoi colleghi maschi:
Nessuno ci pensa, alla fatica. Ci sono occhi solo per medaglie e trofei; o le fantasie sui soldi guadagnati, sempre troppo pochi, che vanno via in un lampo. Si discute di applausi, titoli sui giornali, ma si dimentica la fatica. E la solitudine. [p. 11]
Nel romanzo, tra verità e finzione, c’è una pagina struggente, che racconta di un ricordo di Alfonsina bambina, in un giorno di scuola, durante il quale, dalla viva voce della maestra, aveva sentito raccontare…
[…] di un libro famoso, scritto centinaia d’anni prima, in cui l’anima di un conte, all’inferno, si disperava per aver mangiato i propri figli per fame. Erano stati imprigionati senza cibo. Un giorno, l’uomo si morse le mani per la disperazione e uno dei ragazzini, pensando che il gesto fosse dovuto al lungo digiuno, gli si era offerto in pasto. Il padre aveva provato orrore per se stesso ma poi, quando i figli erano morti a uno a uno per consunzione, si era buttato su di loro e ne aveva strappato la carne a morsi. Le era sembrato che il racconto parlasse di casa sua. Non stavano in galera, ma erano ugualmente incarcerati in una fame eterna a cui Alfonsina si sarebbe volentieri sottratta offrendosi come alimento agli altri… [p. 24]
Il riferimento era all’episodio dantesco del conte Ugolino della Gherardesca, in Inferno XXXII (124-139) e XXXIII (1-78), nobile pisano che, nel 1288, all’interno di feroci lotte cittadine di fazione, e per decisione dell’arcivescovo Ruggieri Ubaldini, fu (ingiustamente) accusato di tradimento e rinchiuso nella torre dei Gualandi, a Pisa, insieme con i figli Gaddo e Uguiccione, e con i nipoti Anselmuccio e Nino, dove tragicamente morirono tutti. Dante, nel suo Inferno, racconta che Ugolino e Ruggieri si trovano puniti assieme nell’Antenora, la seconda zona del IX cerchio infernale, tra i traditori della patria, immersi nel lago ghiacciato fino al collo, con Ugolino che rosicchia bestialmente il capo dell’arcivescovo.
Si tratta di uno degli episodi più tragici, e più noti, dell’intero poema dantesco, dal gusto horror, e il ricordo di Alfonsina bambina e scolaretta, nelle pagine di questo (bel) romanzo di Simona Baldelli, è una ulteriore testimonianza del successo per davvero pop della Divina Commedia, della sua fortuna presso il popolo, anche attraverso raccontini e aneddoti, in tutti i secoli della nostra storia nazionale.
Ho dedicato un capitolo ad Alfonsina Strada, e alla sua partecipazione al Giro d’Italia, nel mio libro Letteratura e Sport. Da Dante a Pasolini (Editore Cacucci, 2021), affinché non si perda memoria di quella partecipazione di questa campionessa della pedivella al Giro d’Italia, e visto che è ancora lunga la strada da percorrere, e non solo nello sport, per una effettività parità di vita.