Voi che siete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome […]
Inizia con queste parole il grido di Primo Levi, scienziato torinese e sopravvissuto ad Auschwitz, ma che non riuscì più a tronare alla vita normale, alla sua vita di prima, fino al tragico suicidio (1919-1987).
Per la Giornata della Memoria, ho pensato di proporre un mini percorso didattico tra storia, sport, letteratura e musica, dedicato proprio al ricordo delle vittime, dei carnefici e degli indifferenti, di quanti cioè abitarono nella zona grigia dell’indifferenza, popolata da chi non si accorse di nulla (in Germania e in Italia). Desidero aprire questa mia proposta didattica con la visione di alcune scene tratte dal film La vita è bella, di Roberto Benigni, che risale a qualche anno fa, ma che resta ad oggi il film che più di tanti altri ha saputo trattare con leggerezza, quasi come una favola (seppur tragica) una tematica e una vicenda così drammatica:
https://www.youtube.com/watch?app=desktop&v=sxyB-RIHY_U
Benigni e Cerami, lo scrittore co-sceneggiatore de La vita è bella, riuscirono a realizzare un film che parlasse a tutti, con leggerezza, ma senza banalizzare. Il protagonista del film, Guido, il papà, una volta internato ad Auschwitz, con il piccolo figlio Giosuè, fa credere al bambino che si tratti di un gioco:
https://www.youtube.com/watch?v=_bvQOsXPg0k
Per comune convinzione degli storici che si occupano del Novecento, e, segnatamente, dell’Olocausto, cioè del genocidio nazi-fascista, che programmò e realizzò lo sterminio di milioni di persone, di tutta Europa, negli anni a ridosso della seconda guerra mondiale (con esattezza, tra il 1933 e il 1945), eliminando, nei campi di concentramento e di sterminio, persone ritenute “inferiori” o “indesiderabili” (ebrei, prigionieri politici, minoranze varie, omosessuali, disabili, religiosi di varie confessioni, ecc.), è necessario non concentrare l’attenzione esclusivamente sulle vittime. Gli esperti, cioè, suggeriscono che una corretta (e proficua) celebrazione della Giornata della Memoria, che si celebra il 27 gennaio di ogni anno, si realizza facendo focus non soltanto sulle vittime di quel genocidio, ma anche sui carnefici, e sulla così detta gente comune, su tutta quella gente (in Germania e in Italia) che fece finta di non accorgersi di nulla, di non sapere, e di non vedere nulla. Solo attraverso questo lavoro (storico e politico) di messa a fuoco sulle vittime, sui carnefici e sugli indifferenti si potrà giungere, un giorno, al possesso di una conoscenza più articolata, complessa e critica di ciò che è accaduto, affinché non si ripeta.
Gli indifferenti, appunto, di dantesca memoria. Proprio Dante Alighieri, con il canto XXVI dell’Inferno, rappresentò per Primo Levi, internato ad Auschwitz, la ciambella di salvataggio, il testo cui aggrapparsi, da ripetere a memoria, per sopravvivere, specie la terzina seguente:
Considerate la vostra semenza:fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”. (vv. 118-120)
Il cammino da percorrere, almeno in Italia, per giungere a una coscienza nazionale, e sentirci, cioè, un unico corpo sociale, è molto lungo. In Italia, infatti, su molte questioni cruciali della vita della Nazione, non c’è ancora un sentimento popolare condiviso. A partire dal 2004, fu istituito per Legge il “giorno del ricordo”, per celebrare le vittime delle rappresaglie jugoslave sul fronte orientale, e l’esodo di oltre di 250 mila italiani dall’Istria, avvenuto tra il 1945 e il 1956, e per ricordare con senso di umana pietà e di riconoscimento politico tutte le vittime delle foibe (si tratta di cavità carsiche del territorio dell’Istria e del Friuli Venezia Giulia, nelle quali furono state gettate sia i cadaveri di persone uccise, sia persone ancora vive, decretandone, così, l’orrenda morte, con modalità di vere e proprie esecuzioni sommarie).
In Italia, il giorno della memoria era nato, sempre per Legge, il 2000, ben cinque anni prima della risoluzione dell’ONU (che è del 2005), che lo istituiva a livello internazionale. Questo rincorrersi delle date, tra il 2000, il 2004 e il 2005, purtroppo, non depone a favore né della verità storica, né della pietà che bisogna provare per le vittime, per tutte le vittime, dal momento che il colore del sangue non è diverso, tra uomo e uomo, tra donna e donna (qualunque casacca indossi). Questo, purtroppo, non è l’unico caso, in Italia, di doppia celebrazione, ovvero, di festività celebrate da molti e ignorate da larga parte del resto della popolazione (si pensi al 25 aprile, tanto per citare un’altra data simbolo, non universalmente condivisa). In Italia, il calendario politico della Nazione non è ancora un calendario unico. Negli Stati Uniti d’America, invece, il giorno del ringraziamento è festività condivisa da tutti gli americani. Dunque, un cammino ancora lungo da percorrere, nella direzione della nascita di una effettiva e piena coscienza nazionale.
Tornando alla Shoah, mi permetto di aggiungere alcuni esempi di Shoah “pugliese”, per via del coinvolgimento di persone nate in Puglia, o, comunque, vissute in Puglia, che dovettero fare i conti, loro malgrado, con lo sterminio. Nell’ottica storico-scientifica che prima ho esposto, sia pur in modo estremamente sintetico, di far focus sulle vittime, sui carnefici e sulla zona grigia, sento il dovere civico di segnalare, in questa mia proposta didattica, non tanto alcuni nomi di vittime (che pur ci sono state), ma anche quello di Nicola Pende, nato il 21 aprile 1880 a Noicattaro, in provincia di Bari, che fu tra i dieci scienziati italiani estensori del Manifesto della razza, emanato il 15 luglio del 1938, dal quale poi fu ricavato, sempre nel 1938, il testo delle sciagurate Leggi razziali (approvate nel mese di novembre), origine e causa della deportazione e dell’uccisione di milioni di persone, nei campi di concentramento e di sterminio nazi-fascisti. Per la precisione, Nicola Pende, con gli altri nove estensori e firmatari del Manifesto della razza, si rese responsabile della deportazione (e della morte) nei lager di ottomila cittadini italiani pugliesi, tra cui ben settecento bambini.
L’aspetto sconcertante, che desidero sottolineare, è che nessuno di quei dieci scienziati, nemmeno Nicola Pende, fu poi rimosso dalla cattedra universitaria che occupava, e nessuno fu mai chiamato a rispondere dello sterminio provocato; nessuno, cioè, ha mai pagato alcun prezzo, anzi, al contrario, furono tutti reintegrati nelle funzioni (e nei privilegi). Non così, invece, per gli scienziati perseguitati dal nazi-fascismo ed emigrati, come Enrico Fermi, o come Bruno Pontecorvo, giusto per fare soltanto due nomi (tra i sopravvissuti). Lo sconcerto si spinge ben oltre, nella nostra Italia che dimentica presto, nella quale è facile riciclarsi, ad ogni cambio di regime, se solo si riflettesse sul dato che molti di costoro, tra cui Nicola Pende, ignorando la loro compromissione con il nazi-fascismo, e con lo sterminio di milioni di persone, siano stati pure gratificati, nell’Italia repubblicana, con intitolazioni di strade, e di di scuole. Tutto questo, nel nome di un cinico senso di appartenenza, e di un comodo alibi di obbedienza. Che Nicola Pende sia nato a Noicattaro di Bari, non ne fa automaticamente una gloria (locale), vista la sua storia compromissoria, e considerato il peso dei morti. Forse, per decenza politica e per rispetto nei confronti delle vittime, sarebbe stato più giusto non intitolargli strade e scuole (come, invece, accade ancora di leggere, dalla toponomastica locale, e dagli elenchi ufficiali delle Istituzioni scolastiche).
Tra le vittime “pugliesi” della Shoah, desidero ricordare Elisa Springer, scrittrice e superstite dell’Olocausto, nata a Vienna, in una famiglia ebrea di origine ungherese, ma naturalizzata italiana, vissuta a Manduria, in Puglia, autrice di libri di memorie sulla sua drammatica esperienza ad Auschwitz, in quanto testimone della Shoah italiana.
Già nel 1938, per evitare l’arresto e la deportazione, Elisa scappò da Vienna, e si rifugiò a Milano, dove si fermò e visse come traduttrice; nel 1944, poi, fu tradita da una spia fascista, e fu denunciata e arrestata. Fu deportata al campo di sterminio di Auschwitz, riuscendo miracolosamente a sopravvivere. Nel campo di Bergen-Belsen conobbe personalmente Anna Frank. Dal 1946, una volta liberata, si trasferì definitivamente in Italia, a Manduria, in provincia di Taranto, con il marito, Guglielmo Sammarco, e dove, oggi, è sepolta. Per molti anni, Elisa ha tenuto nascosta questa sua drammatica esperienza di sopravvissuta ai campi di sterminio, perché la gente non voleva più sentire quelle storie. Dopo molti anni, aiutata dal figlio Silvio, scrisse una autobiografia, Il silenzio dei vivi (1997), e cominciò a girare l’Italia, specie nelle scuole, per testimoniare.
Springer affidò quel suo libro di memorie, ai ragazzi, con parole memorabili, che valgono ancora oggi:
Affido questo libro a tutti i ragazzi che avrei voluto conoscere, agli altri che ho incontrato, conosciuto, amato e che da me hanno voluto sapere…
Il secondo esempio “pugliese”, per questo giorno della memoria, che vorrei ricordare è quello dell’allenatore di calcio Arpad Weisz, ungherese di origine, che guidò il Bari calcio nella stagione 1931-1932, campionato in Serie A, con il Bari che si piazzò al sedicesimo posto, alla sua prima salita in serie A. La storia di questo campione del calcio la racconta un (bel) libro di Matteo Marani, Dallo scudetto ad Auschwitz (Diarkos, Reggio Emilia 2021), perché il ricordo, la memoria di questo allenatore del Bari calcio si era persa quasi del tutto. Bene ha fatto, oggi, il Comune di Bari, a dedicargli una strada, proprio nei pressi dello stadio san Nicola.
Weisz, in Italia, aveva guidato l’Inter, vincendo lo scudetto nel 1929-1930, prima edizione della serie A così come la conosciamo ancora oggi. Nela stagione calcistica 1931-1932, allenò il Bari. Arpad Weisz fu arrestato, per via delle leggi razziali, nell’agosto del 1942, in Olanda. Morì ad Auschwitz il 31 gennaio 1944, a soli 47 anni (morirono con lui anche la moglie e i suoi due figli).
A seguito dell’emanazione delle leggi razziali, nel 1938, tutte le case editrici italiane ricevettero la richiesta, da parte dell’allora Ministero della cultura popolare, di segnalare la presenza in azienda e nel proprio catalogo di elementi di “razza ebraica”. Bisognava denunciare generalità, residenza, congiunti, ecc., di dipendenti e/o autori in catalogo. A Bari, già dal 1901, era attiva la casa editrice Laterza, fondata da Giovanni Laterza, originario di Putignano (Ba), con la collaborazione attiva del filosofo napoletano Benedetto Croce. Ebbene, Giovanni Laterza, con coraggio tutto meridionale e tutto pugliese, rispose nettamente alla richiesta del ministro fascista con queste parole di fermo rifiuto:
I Laterza, oriundi di Putignano, non ricordano di aver mai sentito che genitori ed avi avessero altra fede se non quella cattolica ed altra razza se non quella che è tipica dei popoli pugliesi: forte, tenace e laboriosa.
Questa bella pagina, ancorché triste e dolorosa, della storia della casa editrice Laterza è raccontata e documentata nel libro Quale editore (del 2002), che suggerisco di leggere, come esempio di educazione civica.
In Italia, non tutte le case editrici risposero con coraggio, e a schiena dritta, come fece Giovanni Laterza. In quegli anni, subendone conseguenze tristi, come il sequestro di libri, di riviste e la chiusura di collane editoriali, ma anche l’arresto e la chiusura totale delle attività, due soltanto furono le case editrici che si opposero al Fascismo, e che quindi entrarono nel mirino del regime: la casa editrice Einaudi di Torino, e la casa editrice Laterza di Bari. Atteggiamento conciliante e accomodante, tennero altri editori, pur grandi, come, per esempio, la Bompiani e la Mondadori.
Qualche anno fa Zygmunt Bauman, sociologo e filosofo, pubblicò un libro che non ha avuto larga circolazione e il giusto successo, Modernità e olocausto, nel quale egli metteva l’accento proprio sulle così dette società dell’obbedienza, tra le cause di simili orrori, come il genocidio nazi-fascista, sulle quali riflettere, affinché non si ripetano gli stessi errori (orrori). Bauman lucidamente scriveva, in quel suo libro, che è la società dell’obbedienza e le sue (ipocrite) dinamiche che sono da individuare come i veri responsabili del genocidio.
Un rito, quello della cieca obbedienza (al capo) che non è finito con l’entrata dell’armata rossa nel campo di Auschwitz. No. La società della cieca obbedienza giunge fino ai nostri giorni. Dopo Auschwitz quel sistema cieco e cinico, violento e disumano, continua nella sua riflessione Bauman, è diventato canone. Mi permetto di aggiungere che, in Italia, qualche decennio prima del libro di Zygmunt Bauman, ci aveva già pensato don Lorenzo Milani a lanciare l’urlo, con «l’obbedienza non è più una virtù». Don Milani faceva notare che quando un ordine è contrario all’etica, contrario alla legge universale dell’umanità si ha il dovere (oltre che il diritto) di disobbedire. Nel 1965, don Lorenzo Milani fu processato (e condannato), perché invitava alla obiezione di coscienza, alla disobbedienza civile. La violenza, affermava don Lorenzo, «è la più subdola delle tentazioni».
Dunque, chi ci salverà? Ci salverà «il soldato che la guerra non la farà» (come canta Fabrizio De André nella canzone Girotondo).
Per chi volesse ascoltarla, click sul link:
https://www.youtube.com/watch?v=bRe4wSiiAho