Ciò che è accaduto a Pisa (e non solo a Pisa) è semplicemente vergognoso. Ed è vieppiù vergognoso se solo si mettono a confronto le immagini della carica della Polizia a Pisa (che è stata una carica violenta, rabbiosa e immotivata), con le immagini, risalenti a sole poche settimane fa, che documentavano l’adunata di neo-fascisti a braccia tese (a imitare il saluto fascista, in spregio della nostra carta Costituzionale). Ebbene, in quella circostanza, i poliziotti se ne sono stati buoni buoni, e non erano abbigliati per fronteggiare uno stato d’assedio, non indossavano, cioè, divisa da stato d’assedio, ma la semplice divisa d’ordinanza.
Ciò che pure sconcerta, per la carica di Pisa, signor Presidente Mattarella, è il dettaglio che l’ordine di caricare sarà arrivato da un Questore, da un Prefetto, non sarà, cioè, partito dal nulla, o dalla semplice decisione del capo squadra di turno presente in strada. No. Esisterà certamente, una catena gerarchica. I filmati visti in Tv, infatti, ci mostrano, in alcuni volti di poliziotti, particolare ferocia e veemenza nel colpire che non trovano alcuna giustificazione, visto che quei ragazzi lì presenti, appena un centinaio, erano studenti con il viso scoperto, studenti che non stringevano in mano mazze o altri oggetti contundenti. Inoltre, la decisione e la veemenza della carica non fa pensare a un’azione istintiva, o di difesa, poiché, lo ripeto, i ragazzi presenti non brandivano armi, o bottiglie incendiarie, non lanciavano sassi, o chissà cos’altro. Quindi, la violenza dei poliziotti, leggibile sulla faccia di molti di loro, durante l’assalto, da cosa era motivata o giustificata (se non da una copertura “istituzionale”)?
L’educazione civica, di cui il Paese si riempie la bocca, che è stata reintrodotta nella scuola italiana, a tutti i livelli, dalla Primaria al Liceo, consiste proprio nell’educare i ragazzi italiani a partecipare, a interessarsi della cosa pubblica, a dissentire, a manifestare liberamente il proprio pensiero, a vivere nel concreto dei gesti quotidiani le parole di don Lorenzo Milani, quel suo «I Care», a interessarsi, e non, piuttosto, a vivere da qualunquista e opportunista. Educare alla cittadinanza attiva significa educare a non girare la testa dall’altra parte, a non far finta di nulla, dinanzi alle storture (piccole o grandi che siano). O vogliamo ragazzi distratti e disamorati? O vogliamo giovani che sappiano tutto della crisi dei Ferragnez e nulla di ciò che sta accadendo da mesi in Palestina? Di ciò che sta accadendo da due anni in Ucraina? Che non sappiano nulla della guerra (che ci vede coinvolti come Paese, a costo di equilibrismi giuridici, rispetto alla nostra carta Costituzionale). Quei ragazzi, a Pisa, ma anche a Milano, a Bari, a Palermo, ovunque, hanno diritto a urlare la parola «Pace», che è la parola scomparsa dal lessico politico italiano degli ultimi anni. Nessuno chiede «pace»; nessuno lavora, per davvero, per la pace. Si ode, quando i media danno un po’ di spazio, tra una puntatona l’altra di Sanremo, tra un gossip e l’altro, tra un novantesimo minuto e l’altro del campionato italiano, europeo, mondiale e galattico, tra una ricetta specialissima e l’altra del masterchef di turno, alla voce del papa. Voce fioca, ma ferma. La sola che chiede Pace. Ebbene, quei ragazzi, i nostri ragazzi, hanno diritto di urlare «stop alla guerra in Palestina».
Domina, in Italia, ancora (e solo), la pedagogia del «sugo della storia» di manzoniana memoria, la pedagogia del menefreghismo e dell’opportunismo, secondo la quale bisogna:
– non mettersi nei tumulti
– non partecipare ad alcuno sciopero o manifestazione
– non parlare in piazza
– etc etc
Insomma, la pedagogia celebrata del buon vecchio (e furbo) Manzoni, secondo la quale occorre farsi i fatti propri. Il qualunquismo educativo furbo eretto a sistema, della nostra italietta. La stessa italietta che, da un lato s’indigna per la morte (forse, di Stato) del dissidente Navalny, ma che, al tempo steso, con ipocrisia istituzionale, ordina di utilizzare i manganelli e caricare nelle manifestazioni studentesche.. Una vergogna. Non c’è altra maniera di chiamarla.
Di recente, uno studente, a Modena, Damiano Cassanelli, è stato sospeso dalla frequenza scolastica, solo perché ha osato criticare pubblicamente, in una intervista, alcune questioni di vita all’interno dell’Istituto che frequenta. Il Dirigente Scolastico ha pensato di comminare una sanzione disciplinare grave ed esemplare a questo studente, reo di aver espletato il suo ruolo di cittadino attivo. Cosa anch’essa gravissima, al pari delle manganellate di Pisa, perché lesiva della libertà costituzionale di esprimere il proprio pensiero. Se mettessimo in fila questi episodi, e il loro crescendo in termini di violenza istituzionale, e di pericolosità educativa, il quadro generale che ne esce non è quello di un Paese maturo e democratico (e civile). Nient’affatto.
Mi piace chiudere questo intervento con il rinvio all’ultima frase di un libro di Maria Corti (1915-2002), docente, filologa, critica letteraria e scrittrice, Le pietre verbali, pubblicato nel 2001, che è una sorta di ricostruzione lirico-fantastica degli anni che precedettero, nel nostro Paese, il Sessantotto, attraverso le vicende di un liceo milanese, dall’angolo visuale dei rapporti tra docenti e studenti, ma anche di quello dei rapporti tra figli e genitori, delle difficoltà a capirsi, per una (reciproca) deficienza linguistica. Certo, si tratta un’altra Italia, quella della fine degli anni Sessanta del secolo scorso, di un’altra epoca, rispetto ad oggi, ma per entrambe le stagioni, come filo rosso, forse, vale ricordare a tutti noi adulti che quei giovani, come i nostri giovani, di oggi, che quei ragazzi, come i inostri ragazzi di oggi, «anelavano al nuovo»; erano e sono ragazzi che desideravano quel nuovo «a cui la realtà non bastava», e non basta (ancora oggi). I giovani vanno ascoltati, e non manganellati.