Eduardo De Filippo, commediografo e attore di eccezionali qualità, ha raccontato la realtà sociale del nostro Paese come pochi: soprattutto gli anni travagliati e frenetici del dopoguerra. Seppe guardare con disincanto e lucidità anche a quei miti del mondo partenopeo di cui altri avrebbero celebrato gli aspetti più consolatori: la famiglia, il matrimonio, la bellezza di Napoli, la proverbiale arte di arrangiarsi del popolino mariuolo ma in fondo buono. Eduardo rifuggiva dai luoghi comuni; la sua profondità intellettuale lo spingevano in direzioni innovative, mai retoriche, che lo ricongiungevano direttamente ai grandi demistificatori dei totem borghesi del nostro Novecento, come Pirandello. È sorprendente quanta “napolitanità” impregni le sue storie senza mai rappresentare l’ovvietà di soluzioni che potrebbe presentarsi conseguenzialmente all’idea stessa di mettere in scena Napoli.
Nelle creazioni di Eduardo pertanto riconosciamo immediatamente la realtà campana, ma ancora di più gli aspetti più drammatici e grotteschi della condizione esistenziale umana.
Ecco perché le sue opere acquistano una valenza universale.
Perché ricordare oggi Eduardo ai giovani studenti? Perché rimane anche oggi un potente narratore della miseria e della natura umana. Attento conoscitore della realtà e delle dinamiche sociali riesce a descrivere in ogni sua opera i misteri e le pieghe più profonde dell’animo di ciascuno di noi. E così, a volte, dietro il sorriso si nascondono l’odio e l’inganno e dietro il perbenismo si celano l’affarismo e la crudeltà. I ritmi della quotidianità nei quartieri e dei rioni risulta essere ben descritta dalle parole dei suoi tanti personaggi e leggendo le sue opere si scopre un mondo non tanto diverso da quello attuale.
“Io ho dovuto pagare un prezzo molto alto durante la mia vita, ho dovuto pagare sempre, sempre. E a furia di pagare, certe cose, oggi, non mi riescono più. Per esempio non mi riesce più di avere molta fiducia nella gente, non mi riesce di farmi degli amici veri, talvolta non mi riesce neppure di credere negli affetti. Io non sono una vittima, beninteso: anzi, mi sono sempre difeso bene. Ma l’unica cosa in cui credo davvero, oggi, e in cui sono riuscito ad essere forte, sempre, è il mio lavoro d’attore e di commediografo” (G. Livi, Eduardo piange scrivendo le sue commedie, in «Epoca», a. XIII, n. 592, 4 febbraio 1962, p. 77).
Eduardo credeva nella sua professione e nel mondo dell’arte: riteneva che il teatro potesse veicolare concetti e messaggi atti da indurre alla riflessione; la cultura poteva smuovere le coscienze e il teatro, tra tutte, è la forma più alta e più popolare d’espressione che esista.
“io sono ormai al termine della mia carriera, sono contento di quello che, sia pure con tanti sacrifici e tante amarezze, ho realizzato, non ho bisogno di niente anche se la mia situazione economica non è delle più floride (invece di farmi ville e yacht ho voluto ricostruire un celebre teatro distrutto dalla guerra, e per pagare questo ‘lusso’ da molti anni i miei diritti di autore sono bloccati a favore delle banche), non chiedo niente per me. Parlo perché credo sia mio dovere parlare, perché l’idea di veder morire insieme a me il teatro del mio Paese mi è insopportabile.” (Lettera di Eduardo De Filippo al Ministro dello spettacolo, Paese Sera, 1 ottobre 1959)
Il CNDDU lancia l’hashtag #uninvitoateatro. L’iniziativa rivolta ai giovani intende suscitare l’interesse degli studenti verso un settore culturale oggi provato e in profonda crisi a causa della pandemia.
Eduardo nel 1959 scrisse una lettera molto accorata per sensibilizzare la società circa le difficoltà in cui versava il palcoscenico. Quella lettera ancora oggi sorprende per l’attualità di alcuni suoi passaggi.
“[…] perché – si sbraita -se non ci si dà dell’altra corda, ancora dell’altra corda, il teatro muore!”. No signori, siete voi che lo state uccidendo, il teatro! Voi che state succhiando al teatro le ultime gocce di sangue escogitando chissà quali nuove carnevalate, annunciando chissà quali nuove montagne che partoriranno il topolino, preparando nuovi buchi nell’acqua che stizzosamente attribuirete alla incomprensione del pubblico, architettando chissà quali nuovi programmi all’insegna del dilettantismo, dell’egoismo e della più assoluta indifferenza per le sorti del teatro che, se anche è affidato alle vostre mani di trafficanti, non è patrimonio che vi appartenga e con il quale abbiate legalmente e moralmente qualcosa da spartire.” (Lettera di Eduardo De Filippo al Ministro dello spettacolo, Paese Sera, 1 ottobre 1959)
Ricordiamo che abbiamo una responsabilità enorme: trasmettere alle generazioni future valori che sono arrivati fino a noi e costituiscono l’unico antidoto alla disgregazione delle coscienze.
“Si dice che nella vita dell’uomo c’è un punto di partenza ed un punto di arrivo, di solito riferiti all’inizio e alla fine di una carriera. Io invece sono convinto del contrario: il punto di arrivo dell’uomo è il suo arrivo nel mondo, la sua nascita, mentre il punto di partenza è la morte che, oltre a rappresentare la sua partenza dal mondo, va a costituire un punto di partenza per i giovani. (…) Dunque, questi miliardi di punti di partenza, che miliardi di esseri umani, morendo, lasciano sulla terra, sono la vita che continua.” (Eduardo De Filippo)
prof. Romano Pesavento
presidente CNDDU