Cos’è il burnout?
Ne parliamo con la Dott.ssa Adelia Lucattini-Foti, Psichiatra e psiconalista Società Psicoanalitica Italiana e dell’International Psychoanalytical, alla 44esima puntata della rubrica de La Voce della Scuola LIVE, che dichiara:
“Il termine deriva dall’inglese e significa ‘bruciarsi dall’interno’, ‘scoppiare’, ‘esaurirsi come una candela’, ed è una situazione psicologica di esaurimento pscichico (che significa ansia, depressione,…) che sono causati principalmente se non esclusivamente dall’ambiente lavorativo, (si parla infatti di burnout – stress da lavoro correlato). Si tratta di uno dei tanti problemi che affliggono gli insegnanti: una vera e propria patologia professionale che compromette la salute personale e ha ricadute importanti in ambito lavorativo, e ha avuto un incremento con l’emergenza sanitaria”.
Possiamo dire che la pandemia ha cambiato e accelerato alcuni processi?
“Bisogna dire che le prime forme serie di burnout diffuso nei docenti si sono avuti con la Riforma Gelmini, cioè con l’aziendalizzazione, in cui è stato richiesto di ricoprire dei ruoli e svolgere dei compiti completamente diversi rispetto all’insegnamento, agli aspetti pedagogici, agli aspetti di docenza in senso stretto, per i quali gli insegnanti si sono formati e rispetto ai quali gli insegnanti sono dei professionisti. Non dimentichiamoci che gli insegnanti, dalla scuola dell’infanzia alle scuole superiori, nella maggior parte dei casi sono laureati, e comunque sono persone che si aggiornano continuamente, quindi sono professionisti dell’insegnamento”.
Dello stesso avviso, il professor Francesco Pira Associato di Sociologia dei processi culturali e comunicativi dell’Università degli Studi di Messina, che ha fornito il proprio punto di vista relativamente all’analisi della situazione durante la pandemia:
“Di questa problematica, abbiamo colto le sfumature che abbiamo vissuto nei mesi del lockdown, e che sono venute fuori dalle ricerche che abbiamo fatto; sono cambiati completamente i nostri rapporti, c’è stato sicuramente un affaticamento, uno stress, dovuto da una parte al dover gestire a casa tutti i rapporti con i familiari in una situazione di coabitazione molto difficile, d’altra parte vivere costantemente il rapporto con colleghi che allo stesso tempo sentivano addosso la responsabilità, il rapporto difficile con gli studenti, l’idea di riuscire a trasportare esperienze che eravamo abituati a vivere in presenza in aula, adesso in situazioni completamente diverse, dove era anche difficile impostare rapporti, che non sempre venivano vissuti tra generazioni diverse allo stesso modo, e anche questo comportavano stress particolari. Consideriamo che codici e linguaggi di bambini, preadolescenti, adolescenti, studenti universitari e quelli nostri sono completamente diversi. Il loro modo di vivere il rapporto con la tecnologia è completamente diverso dal nostro. Gli adulti hanno cercato di adattare la tecnologia al proprio vissuto, cercando di rispecchiare le nostre abitudini completamente stravolte, mentre dall’altra parte abbiamo trovato studenti che allungavano le loro ore di permanenza nella rete, tutto questo ha determinato anche per loro dei momenti difficili, perché riuscire a farli concentrare, riuscire a far seguire loro dei programmi sicuramente ha aumentato i livelli di stress. Oggi la situazione è completamente diversa, perché stiamo vivendo un periodo di transizione, dove c’è la speranza che la terza dose ci porti ad una maggiore tranquillità; però il clima di paura con la quale abbiamo vissuto, prima con l’infodemia, e quindi con informazioni che non ci convincevano; poi con la psicodemia, con il terrore di prendere il virus, poi tutta la questione della vaccinazione (vaccino sì, vaccino no, quale vaccino), la disinformazione, le fake news, tutto ciò ha fatto crescere lo stress. Inoltre ha fatto emergere una società capace di grande solidarietà ma anche di grandi cattivismi (egoismi, razzismi,…), la persecuzione nel cercare chi era stato contagiato; insomma tutto ciò ha portato ad evidenziare delle situazioni in cui abbiamo dimostrato delle difficoltà di reazione. Questo ha influenzato negativamente la nostra capacità di reagire ad uno stress di lavoro. Il virus ci ha portato a fare cose che non pensavamo di fare, abbiamo imparato cose che non credevamo di saper fare. Quale sarà lo scenario futuro? Zuckerberg ci spiega la nostra vita attraverso la nuova funzione del metaverso, cioè fusione tra reale e virtuale. E anche lo smart working cambierà, perché le aziende interessate allo smart working si stanno attrezzando a creare dei luoghi virtuali dove si sta meglio che nei luoghi fisici. Sta cambiando completamente la dimensione della nostra vita, la dimensione della nostra fatica, del nostro rapporto con gli altri; sempre maggiori connessioni, sempre minori relazioni, sempre minore la capacità di sopportazione verso l’altro, a volte mancanza di rispetto per l’altro. Per questo, secondo me, occorre riavvolgere il nastro e cercare di capire cosa dobbiamo fare delle nostre esistenze e cercare di vivere una vita dove produciamo di meno ma siamo più solidali e più affettuosi nei confronti del nostro prossimo”.
Le evidenze descritte dal Dott. Pira rappresentano un importante punto di riflessione su come affrontare domani la nostra realtà mutata dopo il virus. Contestualmente, la Dott.ssa Lucattini-Foti è un validissimo punto di partenza per comprendere nel dettaglio la patologia, come essa si manifesta ma anche le possibilità di intervento preventivo, che esistono, ma solo raramente vengono messe in atto.
Gli strumenti che un dirigente può avere per aiutare uno o più docenti in difficoltà?
“Nessuno, questo credo sia un vero vuoto normativo, ma ci tengo a puntualizzare che la prevenzione può essere fatta anche all’interno della scuola, nel senso che da anni esiste in altre nazioni, e anche in alcuni contesti scolastici, la possibilità di fare dei Gruppi Balint, cioè dei gruppi, che in realtà riguardano tre categorie professionali: i sanitari, gli insegnanti e le forze dell’ordine, perché si sa che hanno dei problemi di burnout specifici. Tali gruppi esistono dagli anni 70, e non mi risulta che siano stati mai attivati questi gruppi che forniscono prevenzione e cura rispetto al burnout. Sono gruppi che si fanno una volta a settimana, del tutto volontari, con 10-11 persone e sono estremamente efficaci, un altro tipo di intervento è avere delle supervisioni”. La dottoressa ha sottolineato anche la posizione dei dirigenti, molto spesso con le mani legate di fronte a evidenze certe, ma non provate clinicamente.
La posizione di impotenza dei dirigenti a queste forme di disagio psichico è stata sottolineata anche da Linda Di Cesare, Responsabile Sindacale UIL Scuola RUA Pari opportunità:
“È necessario il dialogo con i dirigenti, anche loro molto stressati da due anni a questa parte, non dimentichiamo che anche loro sono dei lavoratori della scuola. Noi sindacati siamo la controparte, ma capiamo che i dirigenti sono schiacciati da note e norme ministeriali, dall’altro lato dai docenti, dei genitori, criticità perché manca il personale, insomma ci sono notevoli difficoltà”.
Anche la Prof. De Cesare ha elencato i documenti che la normativa attuale prevede per tutelare i docenti da carichi di lavoro estremamente stressanti, ma che sono poco conosciuti e ancor meno utilizzati:
“A livello sindacale abbiamo alcune norme che ci possono aiutare e supportare per quello che è possibile, anche se poi non viene fatto, nel mondo del lavoro: il CCLN (Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro), il Decreto – Sicurezza 81/2008, e un Accordo Europeo sullo stress dell’8 ottobre del 2004. Per il CCLN, in sinergia con le strutture presenti sul territorio, laddove è possibile, occorre permettere un confronto per monitorare i fenomeni di stress, senza arrivare al burnout, già punto drastico. Tra i documenti che possono esserci utili c’è anche il DVR, il Documento di Valutazione del Rischio degli Istituti, ma molto spesso questi documenti non vengono aggiornati, e i lavoratori non ne sono nemmeno a conoscenza. Sono inoltre state presentate delle situazioni di disagio particolari, come quello dei docenti fuori sede, rilevando un aumento di stress lavorativo correlato amplificato da questa particolare situazione di vita”.
A questo proposito è stata ascoltata una testimonianza di una collega immobilizzata ormai da 15 anni, fuori provincia di residenza:
“Tutti i giorni affronto 300km tra andata e ritorno, una situazione che influenza negativamente la mia patologia ansiosa, tant’è che sono in cura, perché questi spostamenti, in qualsiasi situazione metereologica, con le intemperie, hanno determinano una situazione ansiosa, che ha fatto di me un soggetto fragile. Per quanto altro tempo potrò sopportare questa situazione? Vorrei solo avvicinarmi, non avere il posto sotto casa, ma almeno avvicinarmi di più alla mia provincia di residenza. Come mai, chiedo al Ministro, non riesco ad avvicinarmi dopo tanto tempo? Non riesco nemmeno ad avere assegnazione provvisoria. A 49 anni sono costretta a viaggiare tutti i giorni per garantire la mia presenza quotidiana, per una correttezza professionale. Mi chiedo per quanto altro tempo?”
Dopo aver ascoltato la testimonianza, la Dott. Lucattini-Foti dichiara:
“Questa testimonianza pone diversi interrogativi. Sul piano clinico, dal momento che è stato preso atto dello stress da lavoro correlato degli insegnanti attualmente le linee guida indicano che gli insegnanti che sviluppano, a causa delle condizioni lavorative, qualunque esse siano, un disturbo di tipo ansioso o ansioso-depressivo, debbano intraprendere un percorso pscioterapeutico individuale. Questo implica che sia un costo, l’onere della cura spetta all’insegnate stesso. Inoltre si presuppone che le persone siano ben disposte nei confronti della mobilità, ci sono delle teorie che ritengono che il lavoro vada inseguito perché può essere stimolante trovarlo in contesti differenti, ma deve essere una scelta, non un obbligo. Inoltre, per le insegnanti esiste una situazione diversa: ci sono insegnanti che si trasferiscono volentieri, con la propria famiglia o perché non hanno ancora famiglia, insomma la vivono come un’opportunità, ma negli ultimi anni non è così, perché questa condizione si è andata ad inserire in persone che, venendo dal precariato, hanno sempre lavorato nello stesso posto, e hanno famiglia, hanno figli. Inoltre l’aspetto della mobilità deve essere facilitato da una serie di elementi, deve essere facilitato nel trovare un’abitazione, avere un rimborso spese, una condizione economica che sia proporzionata a quello che viene chiesto. Ma l’aspetto fondamentale è sia una scelta, non un obbligo. L’insegnante che racconta la sua esperienza ha sviluppato col tempo delle patologie cliniche, elementi iniziali di ogni situazione di burnout. I cui primi sintomi sono l’apatia, il disinteresse, all’aggressività, fino al cinismo, al distacco nei confronti dei colleghi, nei confronti degli studenti, ma ci può essere quando inizia una depressione un vero e proprio senso di persecuzione: persone ad esempio che in una riunione o in classe hanno l’impressione che i colleghi o gli studenti ce l’abbiano con loro. Questo è un disturbo: è importante che un insegnate sappia riconoscere questo tipo di pensiero, perché è un indice chiaro che ha superato il limite delle proprie capacità in termini di forza emotiva e psichica, di saper affrontare la vita”.
Le conclusioni di questo incontro possono essere riassunte nella necessità di dare rilievo alla patologia, così pregnante in ambito scolastico, in modo da intervenire per tempo, nonché attuare cambiamenti seri che siano capaci di restituire ai docenti la possibilità di immergersi con serenità nella loro effettiva funzione, quella pedagogica.