Il proibizionismo digitale: la lezione che non insegna
Vietare gli smartphone a scuola tutela docenti e presidi dalle grane legali, ma non insegna ai ragazzi a vivere al tempo dei social


Gli adulti, da sempre, hanno paura dei linguaggi che non capiscono. Nell’Ottocento il romanzo “corrompeva” i giovani. Negli anni Sessanta la televisione li rincitrulliva. Negli anni Novanta i videogiochi li rendevano violenti. Oggi, il nuovo demonio si chiama social network. È la stessa commedia: lo strumento diventa colpevole, il ragazzo la vittima, l’adulto il censore. Solo che, ancora una volta, la realtà è diversa: i liceali non sono cavie ipnotizzate, sono protagonisti consapevoli di un ambiente culturale che parlano e abitano con naturalezza.
Ed è qui che entra in scena il paradosso della scuola. Si discute di vietare gli smartphone in classe. Non senza ragioni: presidi e docenti finiscono sempre più spesso invischiati in conseguenze legali impreviste – registrazioni clandestine, violazioni della privacy, cyberbullismo che esplode dentro le mura scolastiche. Il rischio giuridico è reale, e non di rado l’insegnante che si vede circolare un suo video derisorio online non sapeva nemmeno di poter diventare vittima o imputato di una dinamica che non controlla. Da questo punto di vista, il divieto è comprensibile: serve a proteggere chi lavora a scuola da responsabilità pesanti e da un quadro normativo spesso ambiguo.
Ma un conto è la legittima prudenza giuridica, un altro è scambiare il divieto per soluzione educativa. Bandire lo smartphone non insegna a usarlo. Al contrario, rischia di rafforzare la clandestinità: il ragazzo continuerà a vivere nel linguaggio dei social, ma lo farà fuori da ogni contesto guidato. È come proibire di leggere romanzi nell’Ottocento o di guardare la televisione negli anni Sessanta: si perde l’occasione di educare, si rinuncia alla sfida culturale.
Chi frequenta le scuole lo sa: i ragazzi non si limitano a consumare passivamente video e trend. Producono contenuti, diffondono opinioni, costruiscono comunità. I social diventano per loro palestra di linguaggio e creatività, perfino incubatore di cittadinanza attiva. Non si tratta di ignorare i rischi, ma di riconoscere che la partita non si vince con i muri, bensì con i ponti. Educare significa insegnare a leggere un feed come si insegna a leggere un romanzo, a interpretare un video virale come si interpreta un film, a decifrare un meme come si decifra una poesia satirica.
Gli adulti vedono dipendenza, manipolazione, algoritmi onnipotenti. Eppure i ragazzi sviluppano anticorpi: distinguono l’autentico dal manipolato, smontano con l’ironia il linguaggio pubblicitario, riconoscono e ridicolizzano le narrazioni invadenti. Dove l’adulto teme il condizionamento, il giovane spesso sperimenta linguaggi nuovi. Certo, ci sono i fragili, ci sono i casi di ansia e isolamento. Ma i social non sono sempre causa: spesso sono specchio e, in molti casi, supporto. Per ragazzi marginalizzati, per identità minoritarie, per passioni fuori dal mainstream, la rete è luogo di riconoscimento, comunità e resilienza.
Il punto non è scegliere tra proibizionismo e anarchia. Il punto è capire che la generazione digitale non smetterà di esserlo solo perché gli adulti hanno paura. La responsabilità legale di presidi e insegnanti giustifica misure cautelative dentro le mura scolastiche. Ma se la scuola abdica alla missione educativa sui social, lascia i ragazzi soli in quell’universo che plasma linguaggi, immaginari, relazioni.
La sfida educativa non è eliminare gli smartphone dalle aule, ma insegnare a usarli con intelligenza, distinguendo quando sono strumento e quando distrazione, quando sono minaccia e quando risorsa. Bloccare non basta. Accompagnare è l’unica via. Il futuro non si doma con i divieti, ma con la cultura.