“La lenta agonia degli istituti professionali: dall’abolizione della terza area al successo degli ITS, la scuola che ha perso la sua anima”
C’erano una volta gli istituti professionali: scuole nate per formare tecnici, artigiani, operatori e manutentori capaci di entrare subito nel mondo del lavoro


C’erano una volta gli istituti professionali: scuole nate per formare tecnici, artigiani, operatori e manutentori capaci di entrare subito nel mondo del lavoro. Oggi, a più di dieci anni dalla riforma Gelmini e oltre trent’anni dal glorioso Progetto ’92, di quella missione resta poco più che un ricordo.
Le aule sono sempre più simili a quelle dei licei, i laboratori si svuotano, le ore pratiche si dimezzano e gli studenti, disorientati, finiscono spesso per non possedere né una competenza tecnica né una preparazione teorica sufficiente a proseguire gli studi universitari.
Questa è la storia della morte lenta degli istituti professionali italiani, una vicenda che parte da riforme nate per razionalizzare il sistema scolastico ma che, nei fatti, hanno smantellato il legame tra scuola e lavoro.
Dalle origini del progetto ’92 alla riforma Gelmini
Per capire la parabola discendente degli istituti professionali bisogna tornare al 1992, anno in cui il Ministero della Pubblica Istruzione varò la Circolare Ministeriale n. 206/1992 e il D.M. 24 aprile 1992, conosciuti come Progetto ’92.
Quel piano riorganizzava la formazione professionale in tre aree: una area comune di base (italiano, matematica, scienze), una area tecnico-pratica e una terza area professionalizzante, dedicata all’approfondimento laboratoriale e all’interazione con il territorio.
Era un modello dinamico e inclusivo, pensato per favorire la collaborazione con le imprese locali e offrire agli studenti competenze spendibili subito dopo il diploma. Per alcuni anni funzionò: le scuole sperimentavano, le aziende collaboravano, e il tasso di occupazione dei diplomati professionali era tra i più alti dell’intero sistema scolastico.
Poi arrivò la stagione dei tagli e delle riforme strutturali.
La svolta del 2008: la riforma Gelmini e il ridimensionamento
Con il decreto-legge 112/2008, convertito nella legge 133/2008, il governo introdusse una razionalizzazione del sistema scolastico.
Il successivo D.P.R. 87/2010 – “Regolamento sul riordino degli istituti professionali” – ridisegnò completamente il settore.
I cambiamenti furono radicali:
da 27 indirizzi si passò a 6 macro-indirizzi;
venne abolita la terza area professionalizzante, cuore del Progetto ’92;
il monte ore settimanale fu ridotto a 32 ore effettive;
le ore di laboratorio furono dimezzate o integrate in moduli teorici;
le compresenze dei docenti tecnico-pratici (ITP) vennero progressivamente eliminate;
le risorse economiche per i laboratori e le esercitazioni si ridussero drasticamente.
La riforma, giustificata come operazione di “semplificazione e modernizzazione”, finì per svuotare il modello di formazione professionale, che perse progressivamente il suo legame con il mondo produttivo.
Professionali o licei travestiti?
Gli istituti professionali nati dopo il 2010 assomigliano sempre più ai licei: stessi libri, stessi programmi di base, stesse verifiche. Ma a differenza dei licei, non offrono un curriculum solido per l’università.
Le discipline tecnico-pratiche sono state relegate a poche ore settimanali, spesso concentrate in spazi insufficienti o privi di attrezzature moderne.
La formazione sul campo – un tempo fiore all’occhiello del sistema – è oggi un ricordo lontano.
“Abbiamo studenti che studiano macchine a controllo numerico solo sui manuali”, racconta un docente di un professionale meccanico lombardo. “Le nostre attrezzature risalgono agli anni Novanta. Così non si impara un mestiere.”
Il risultato è un ibrido inefficace: scuole teoriche che non preparano ai mestieri e laboratori che non preparano al lavoro.
Giovani disorientati, mercato del lavoro assente
Secondo i dati di Unioncamere e ANPAL (Rapporto Excelsior 2024), l’Italia ha un fabbisogno di oltre 300.000 tecnici specializzati all’anno, ma solo un terzo di questi profili è effettivamente disponibile.
Il paradosso è che le scuole professionali, nate per colmare quel vuoto, non riescono più a produrre tecnici qualificati.
Molti diplomati finiscono per iscriversi a corsi universitari o ITS senza una chiara direzione, mentre altri restano intrappolati in lavori precari e non coerenti con il loro percorso.
La promessa di un “ponte” tra scuola e lavoro si è trasformata in un viadotto interrotto.
Gli ITS: il successo del modello che i professionali hanno perso
Mentre gli istituti professionali arretrano, gli ITS – oggi ITS Academy – avanzano.
Secondo il Monitoraggio INDIRE 2025, gli iscritti agli ITS sono oltre 11.800, con una crescita del +27,7 % rispetto al 2022.
Il tasso di occupazione a un anno dal diploma è superiore all’87 %, e il 94 % dei diplomati lavora in un settore coerente con il proprio percorso di studi.
Gli ITS hanno saputo conquistare imprese e studenti grazie a tre elementi chiave:
co-progettazione dei corsi con le aziende del territorio;
didattica laboratoriale prevalente (oltre il 60% delle ore totali);
stage e tirocini obbligatori in azienda.
In sostanza, gli ITS rappresentano oggi il modello virtuoso che gli istituti professionali avrebbero dovuto incarnare: formazione tecnica, concretezza e sbocco occupazionale.
Le conseguenze: scuole svuotate, professionalità perdute
Oggi, gli istituti professionali vivono un cortocircuito identitario: non sono più abbastanza tecnici per preparare al lavoro, né abbastanza teorici per aprire all’università.
Molti studenti li scelgono come “ripiego”, spinti da orientamenti scolastici poco efficaci.
Il risultato è un livello di dispersione scolastica superiore al 25%, secondo i dati Eurostat 2023, con picchi nel Mezzogiorno.
A ciò si aggiunge la carenza cronica di docenti tecnico-pratici, la scarsità di fondi per laboratori e la difficoltà di dialogare con le imprese locali, ormai disabituate a considerare le scuole professionali come bacini di formazione.
Che futuro per i professionali?
Negli ultimi anni il Ministero dell’Istruzione e del Merito ha avviato la riforma del sistema tecnico e professionale, con l’obiettivo di creare un percorso “4+2”: quattro anni di scuola secondaria e due anni di formazione post-diploma, in collaborazione con gli ITS e il mondo produttivo.
Il modello, se attuato pienamente, potrebbe ridare senso agli istituti professionali, integrandoli in un continuum formativo più solido e orientato all’occupabilità.
Ma perché questo accada, servono investimenti concreti e una visione chiara.
Occorrono laboratori moderni, personale formato, orari flessibili, e soprattutto una restituzione di identità: quella di scuole che insegnano un mestiere, non una teoria astratta.
Il punto di non ritorno
Dal Progetto ’92 alla riforma Gelmini, fino agli ITS Academy, la storia degli istituti professionali italiani racconta una parabola di declino politico e culturale.
Tagli, semplificazioni e omologazioni hanno trasformato scuole vive e operative in contenitori burocratici.
Eppure, proprio nel momento in cui il Paese ha più bisogno di tecnici, artigiani e operatori qualificati, la formazione professionale è diventata la Cenerentola del sistema educativo.
Rilanciare gli istituti professionali non è solo una questione di riforme, ma di visione strategica: o si restituisce dignità al sapere tecnico, o si accetterà che l’Italia continui a importare competenze che un tempo sapeva formare da sola.
Un Paese che rinuncia alla sua scuola professionale rinuncia al proprio futuro produttivo.