La flottilla, la guerra delle canoe e il boomerang israeliano
Bloccata stasera la flottilla: piccole barche, grande propaganda. Israele difende il blocco ma perde la battaglia d’immagine.


C’è un’arte sottile, vecchia come il mondo, che consiste nel costringere l’avversario a reagire esattamente come vuoi tu. Non si chiama strategia militare, ma teatro politico. La flottilla diretta a Gaza non è la cavalleria leggera di Balaklava, né un’armata rivoluzionaria. È un manipolo di attivisti con barchette, telecamere e social media. Eppure, con pochi mezzi, sono riusciti a far cadere Israele nella trappola classica: apparire forte con i muscoli e debole con la testa.
Gli israeliani hanno il blocco navale, una ragione di sicurezza che suona comprensibile: impedire armi, materiali, infiltrazioni. Ma hanno anche un problema di immagine, che non riescono a risolvere. Se fermano le barche — e le devono fermare, altrimenti il blocco diventa una barzelletta — finiscono col sembrare la marina militare più nervosa e sproporzionata del Mediterraneo. Se non le fermano, si apre la breccia: chiunque, domani, potrà provarci.
Gli attivisti lo sanno bene. Il loro vero carico non è riso e medicinali, ma propaganda, indignazione, storytelling da esportazione. Ogni abbordaggio, ogni spruzzo d’acqua, ogni motore disturbato diventa notizia, titolo, indignazione ONU, tweet di ambasciatore. Il risultato? Un boomerang perfetto: Israele difende il suo muro d’acciaio, ma agli occhi del mondo appare come un colosso che si abbatte su canoe di volontari.
La chiamano asimmetria, io la chiamerei arte dell’imbecillimento mediatico. I forti ci cascano sempre: i piccoli organizzano la provocazione, i grandi reagiscono e diventano Golia che picchia Davide davanti alle telecamere. Win–win, lo direbbero in inglese: comunque vada, la flottilla vince. O passa (e allora ha spezzato il blocco), o viene fermata (e allora ha spezzato l’immagine di Israele).
E non basta invocare il diritto internazionale, i regolamenti marittimi, le legittime esigenze di sicurezza. Sono argomenti che non fanno audience, non riempiono le prime pagine. A colpire è il simbolo: barche civili contro cannoniere. Gli attivisti lo sanno, i governi che prendono posizione lo sanno, perfino i cronisti annoiati delle agenzie stampa lo sanno. Sembra di rivedere il Mavi Marmara del 2010, con la differenza che ora il copione è più raffinato e ancora più spietato sul piano comunicativo.
Israele si trova così nella posizione più scomoda: difendersi con le armi di un conflitto convenzionale da una sfida che è solo comunicativa. Può vincere militarmente tutte le partite, ma sul piano simbolico e morale perde quasi sempre. Perché l’opinione pubblica mondiale non ragiona di diritto marittimo, ma di immagini: chi ha l’uniforme è il cattivo, chi ha la bandiera pacifista è il buono. Fine della storia.
La flottilla lo ha capito. Israele, nonostante settant’anni di esperienza, sembra non impararlo mai.