È morto Amleto De Silva, scrittore e vignettista napoletano

Il mondo della cultura piange la scomparsa di Amleto De Silva, scrittore e vignettista napoletano, morto a 65 anni dopo una lunga malattia. Nato a Napoli e cresciuto a Salerno, Amleto era il fratello...

A cura di Redazione
29 dicembre 2024 18:28
È morto Amleto De Silva, scrittore e vignettista napoletano -
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Il mondo della cultura piange la scomparsa di Amleto De Silva, scrittore e vignettista napoletano, morto a 65 anni dopo una lunga malattia. Nato a Napoli e cresciuto a Salerno, Amleto era il fratello dello scrittore Diego De Silva. La sua carriera iniziò con collaborazioni come vignettista per riviste celebri come Cuore e Smemoranda, in cui spiccò per il suo umorismo tagliente e l’abilità di cogliere le contraddizioni della società.

De Silva non si limitò al disegno satirico: i suoi successi letterari includono opere come Statti attento da me, La nobile arte di misurarsi la palla, Bocca mia mangia confetti e Una banda di scemi. Scrittore versatile, si dedicò anche al teatro, collaborando con artisti del calibro di Enrico Montesano.

La notizia della sua morte, avvenuta il 29 dicembre, ha suscitato un’ondata di cordoglio, con messaggi di affetto e commemorazione che si sono moltiplicati sui social media. Tra i tanti tributi, Florindo Rubbettino, dell’omonima casa editrice, ha ricordato De Silva come una voce originale e profonda, capace di trasformare il quotidiano in riflessione e sorriso. Anche Luigi Franco, editore e amico personale, ha sottolineato il vuoto lasciato da De Silva, definendolo “un’anima libera, capace di unire comicità tagliente e straordinaria profondità emotiva”.

Con la sua morte, il panorama culturale italiano perde una figura poliedrica, capace di raccontare la realtà con ironia e sensibilità. Le sue opere continueranno a ispirare, mantenendo vivo il ricordo di un autore che ha saputo trasformare ogni frammento di vita in un racconto unico e indimenticabile.

Le scuole che servono. di Amleto de Silva (AMLO)
Io non sono mai andato volentieri a scuola, e questo è uno dei motivi per cui non ho mai fatto il concorso a cattedra. Non mi piace l’ambiente: trovo che la scuola italiana sia, e sia sempre stata, una solenne porcheria. Programmi imposti dal ministero, e se volete sapere cosa significa imposti dal ministero, andatevi a  spulciare i nomi dei ministri dell’istruzione degli ultimi quarant’anni e capite meglio. Non a so voi, ma un ‘istituzione che ha avuto a capo nomi eccellenti che vanno dalla mitica Bono Parrino all’indimenticabile Gelmini, passando per menti come Russo Iervolino e Misasi, Moratti e Fioroni,  a me scatena come minimo ilarità. Intendiamoci, non sto parlando dello studio: quello, è fondamentale. Farsi il culo sui libri è un privilegio che dovrebbe essere concesso gratis a tutti, apposta adesso te lo fanno pagare carissimo. Non confondetemi con gli scemi dell’università della vita. Ma che la scuola italiana abbia sempre fatto schifo al cazzo non ve lo devo dire io, basterebbe che buttaste un occhio a Mastronardi. Non so voi, ma quando a scuola ci andavo io era il paradiso dei cretini e dei leccaculi, una specie di anticamera della peggiore società immaginabile. Anzi, è stata per anni una specie di coming soon di tutto il peggio che sarebbe diventato il nostro paese.

Mentre, e  parlo degli anni 70, l’Italia non era ancora il paese così incredibilmente lurido che è adesso, ma , per esempio, uno senza un calcio in culo poteva sperare di trovare un lavoro, a scuola era possibile (non in tutte le scuole, ovvio, ma a scuola) emergere truffando. Bastava imparare a memoria quattro cazzate, leccare il culo, magari, perché no, fare la spia e eccoti un primo della classe perfetto. Per non parlare dei programmi, appunto, ministeriali, roba da farti pisciare sotto dalle risate, un’accozzaglia di ammeschefrancesche che parevano uscite da uno sketch dei Brutos.

E’ stata la scuola italiana a prepararci questo bel piattino di gentaglia che ci ritroviamo intorno e addosso, mica no. E adesso nemmeno gli basta più: sono anni che parlano di trasformarla in trampolino di lancio, in preparazione dei giovani per il mondo del lavoro. Solo che, non essendoci il lavoro, resta la preparazione a quel mondo. Che significa, sostanzialmente, zitto e ubbidisci al padrone. Impara quello che serve al padrone, o che potrà servirgli, e poi vai fuori e cercatene uno, se si degnerà di accogliere nelle sue piantagioni uno schiavetto in più da mortificare.

Quelli della mia generazione hanno avuto culo: noi ci siamo salvati perché, nonostante la scuola, abbiamo imparato qualcosa. Perché fuori da scuola uscivi e trovavi Pazienza in edicola, Scola al cinema e i Clash nei negozi di dischi. Adesso avete i comunisti milionari che sui giornali de sinistra s’inalberano per le cacchine dei cagnolini sui marciapiedini: non v’invidio.

Anche se forse una speranza c’è. Leggevo oggi che il rapper di Amici ha disdegnosamente smentito la sua partecipazione alla festa del Pd. Pare abbia detto: io, locc dint, ma quando mai? L’ultimo barlume di dignità ce lo regala un alunno di Maria De Filippi. Allora ci sono, le scuole che servono.

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