Inclusione, formazione e scorciatoie: il chiarimento del prof. Dario Ianes

Come direttore del giornale, ho ritenuto doveroso non fermarmi alla polemica social e ho contattato direttamente il prof. Ianes, che ha accettato con disponibilità di chiarire pubblicamente la propria posizione

A cura di Diego Palma Diego Palma
16 dicembre 2025 16:09
Inclusione, formazione e scorciatoie: il chiarimento del prof. Dario Ianes - prof. Dario Ianes
prof. Dario Ianes
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Dopo la lettera delle Community “Uniti per INDIRE”, un confronto necessario

Nei giorni scorsi il dibattito sulla formazione per il sostegno si è riacceso con forza, a seguito di alcune dichiarazioni del professor Dario Ianes che hanno suscitato la reazione delle Community Uniti per INDIRE.
In una lettera aperta, Daniela Nicolò, portavoce delle Community, ha espresso disagio e preoccupazione per affermazioni percepite come svalutanti nei confronti dei docenti che hanno scelto i percorsi INDIRE, ricordando come la scuola inclusiva viva ogni giorno nella complessità delle classi reali.

Come direttore del giornale, ho ritenuto doveroso non fermarmi alla polemica social e ho contattato direttamente il prof. Ianes, che ha accettato con disponibilità di chiarire pubblicamente la propria posizione, entrando nel merito delle scelte politiche e formative che oggi attraversano il sistema scolastico.

Professore, la sua critica è stata letta come un attacco ai docenti che frequentano i corsi INDIRE. È così?

«No, in modo assoluto», chiarisce subito Ianes.
«La mia critica non è rivolta alle persone, che anzi rispetto profondamente. Sono docenti che vogliono specializzarsi, che lavorano in contesti difficili e che cercano strumenti per migliorare. Il problema è il modello di formazione scelto dal decisore politico».

Il professore ricorda di aver espresso perplessità fin dall’inizio:
«Prima 30 CFU, poi 40, tutti online, reiterati più volte. Questa dinamica non nasce da una riflessione pedagogica, ma da una scelta emergenziale e politica».

Perché ritiene che i percorsi brevi non siano equiparabili al TFA ordinario?

«Perché non lo sono», risponde con decisione.
«Il TFA in presenza comporta sacrifici enormi: spostamenti, lezioni frontali, laboratori, tirocinio diretto e indiretto, osservazione sul campo. Pensare che tre anni di servizio possano “compensare” tutto questo non regge logicamente».

Ianes usa un paradosso efficace:
«Se tre anni permettono di abbreviare, allora con sei anni si dovrebbe fare ancora meno e con nove anni nulla. È evidente che questo ragionamento non sta in piedi».

Ma molti corsisti parlano di percorsi seri e impegnativi.

«Non lo metto in dubbio», precisa.
«Ci saranno corsi fatti bene, persone che studiano, che riflettono, che si mettono in gioco. Ma la qualità di un sistema formativo non si misura sulle singole buone volontà, bensì sulla struttura complessiva del percorso».

Il punto, insiste, è la dimensione laboratoriale in presenza:
«Ho fatto recentemente una lezione operativa di quattro ore. Li vedevo lavorare, discutere, costruire soluzioni insieme. Quelle dinamiche non sono facilmente replicabili online. Non per ideologia, ma per limiti oggettivi della didattica».

La sua critica, quindi, è politica?

«Esattamente», afferma Ianes.
«Questi percorsi sono una scorciatoia voluta dal Governo per immettere rapidamente grandi numeri di specializzati: chi aveva tre anni di servizio e chi ha rinunciato al contenzioso per titoli esteri. È una logica da sanatoria».

Una scelta che, secondo il professore, ha prodotto un effetto grave:
«Ha messo gli uni contro gli altri. Studenti del TFA ordinario contro corsisti INDIRE. Persone che domani faranno lo stesso lavoro nella stessa scuola. Questa divisione è un danno diretto all’inclusione».

Una riflessione dalla scuola reale

Conoscendo da vicino la realtà dei TFA in presenza, è difficile non riconoscere quanto siano percorsi esigenti: frequenza obbligatoria, carichi di lavoro intensi, tirocinio reale nelle classi, confronto continuo con tutor e colleghi.
Non sono percorsi “eroici”, ma strutturati per costruire competenze professionali attraverso l’esperienza diretta, l’errore, la riflessione condivisa.

È proprio questo confronto quotidiano, spesso faticoso ma formativo, che rischia di essere sacrificato quando la formazione viene compressa in modelli accelerati e prevalentemente online, pensati più per rispondere a un’emergenza numerica che a una visione educativa.

Inclusione: il vero tema rimosso

Per Ianes, il problema è più profondo:
«Manca una riforma seria dell’inclusione. Sostegno, educatori, PEI, organici, formazione: tutto dovrebbe essere ripensato insieme. Invece si procede per interventi frammentari».

Cita un dato preoccupante:
«In una nostra ricerca recente, il 27% degli insegnanti si è detto favorevole a classi o scuole speciali. Questo ci dice che, quando l’inclusione diventa difficile e mal supportata, qualcuno inizia a metterla in discussione».

Il confronto resta aperto e necessario. È legittimo che i docenti che frequentano i percorsi INDIRE difendano il proprio impegno. È altrettanto legittimo – e doveroso – interrogarsi sulla qualità e sulle finalità delle scelte politiche in materia di formazione.

L’inclusione non si difende abbassando l’asticella o creando percorsi paralleli che dividono la professione docente.
Si difende investendo seriamente, con visione, rispetto e coerenza.

Perché l’inclusione non è uno slogan né una scorciatoia:
è una responsabilità collettiva che si costruisce ogni giorno, nelle classi, con competenze solide e formazione all’altezza della complessità reale della scuola.

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