Pensioni da fame e classi affidate a docenti ultrasessantasettenni: serve una svolta per la scuola italiana

Il Coordinamento Nazionale Docenti della disciplina dei Diritti Umani ritiene non più rinviabile una presa di posizione chiara e responsabile sul tema della previdenza dei docenti, una questione che sta assumendo i connotati di una vera emergenza sociale

A cura di Redazione Redazione
19 dicembre 2025 18:04
Pensioni da fame e classi affidate a docenti ultrasessantasettenni: serve una svolta per la scuola italiana -
Condividi

Negli ultimi mesi, infatti, numerosi insegnanti, dopo aver effettuato simulazioni sui portali ufficiali dell’INPS, hanno scoperto che l’assegno pensionistico prospettato può collocarsi in una fascia compresa tra circa 700 e 900 euro mensili, soprattutto per chi arriva alla pensione dopo carriere segnate da lunghi periodi di precarietà e da un ingresso tardivo in ruolo. Questo dato, riportato anche da analisi e simulazioni pubblicate su testate specializzate nel settore scolastico e previdenziale, restituisce l’immagine di un sistema che rischia di produrre nuove forme di fragilità proprio tra coloro che hanno garantito per decenni un servizio essenziale allo Stato.

La normativa vigente prevede che l’accesso alla pensione di vecchiaia avvenga a 67 anni con almeno 20 anni di contributi, mentre per la pensione anticipata sono richiesti oltre 41 anni e 10 mesi di contribuzione per le donne e 42 anni e 10 mesi per gli uomini, requisiti che restano validi almeno fino al 2026 secondo le indicazioni istituzionali. Tali soglie, applicate a carriere discontinue e spesso avviate in età non giovane, producono effetti penalizzanti sugli importi finali e costringono molti docenti a rimanere in servizio ben oltre una soglia di sostenibilità personale.

A questo quadro si aggiunge un elemento che il Coordinamento considera particolarmente critico e, per certi versi, paradossale: appare sempre più assurdo affidare la gestione quotidiana di una classe a docenti che hanno raggiunto o superato i 67 anni di età. Non si tratta di mettere in discussione il valore umano e professionale degli insegnanti più anziani, ma di riconoscere che l’attività didattica richiede energie fisiche, prontezza cognitiva e capacità relazionali che possono essere messe seriamente alla prova a età così avanzate. La scuola è un ambiente complesso, caratterizzato da ritmi intensi, gestione di conflitti, sorveglianza continua e responsabilità educative che difficilmente possono essere sostenute senza conseguenze sul benessere psico-fisico del docente e, indirettamente, sulla qualità del servizio offerto agli studenti.

Questo scenario si inserisce in un contesto lavorativo che i dati internazionali contribuiscono a descrivere con chiarezza. L’ultima indagine OCSE TALIS evidenzia come l’età media dei docenti italiani sia tra le più alte in Europa, attestandosi intorno ai 48 anni, con circa il 49 per cento degli insegnanti che ha superato i 50 anni di età. Allo stesso tempo, oltre la metà dei docenti indica il carico amministrativo e burocratico come una delle principali fonti di stress professionale, insieme alla mole di lavoro legata alla valutazione degli studenti e alla gestione delle relazioni con le famiglie. A questo si aggiunge un dato particolarmente significativo: solo il 23 per cento degli insegnanti italiani dichiara di essere soddisfatto della propria retribuzione, una percentuale nettamente inferiore alla media OCSE.

Diventare insegnanti, inoltre, è oggi un percorso lungo ed economicamente gravoso. Anni di formazione universitaria, percorsi abilitanti spesso a pagamento, concorsi selettivi e aggiornamento continuo si accompagnano, per moltissimi docenti, a lunghi periodi di lavoro precario e a una mobilità territoriale forzata. Incarichi lontani dalla propria città di residenza, costi per affitti, trasporti e doppie domiciliazioni incidono in modo significativo sulla possibilità di costruire una stabilità economica e di accantonare risorse utili per il futuro. Non sorprende, quindi, che alla fine della carriera emerga il rischio concreto di una pensione insufficiente a garantire condizioni di vita dignitose.

Alla luce di questi elementi, il Coordinamento Nazionale Docenti della disciplina dei Diritti Umani ribadisce che l’insegnamento deve essere riconosciuto come lavoro usurante. L’usura non è solo fisica, ma anche mentale ed emotiva, ed è il risultato di decenni di impegno in contesti educativi sempre più complessi, spesso senza un adeguato riconoscimento sociale e istituzionale. Oggi esistono già, nell’ordinamento previdenziale, canali specifici per i lavori particolarmente faticosi e pesanti, disciplinati dall’INPS attraverso procedure e scadenze precise, ma l’insegnamento continua a rimanerne escluso, nonostante le evidenze sul carico reale di questa professione.

Il CNDDU lancia quindi un appello alle istituzioni affinché venga aperto un confronto serio e documentato sulla condizione previdenziale dei docenti. Una scuola che costringe i suoi insegnanti a rimanere in classe fino a 67 anni e oltre, senza offrire adeguate tutele e prospettive dignitose di uscita, è una scuola che mette a rischio non solo il benessere dei lavoratori, ma anche la qualità dell’istruzione stessa. Il rischio è quello di scoraggiare le nuove generazioni dall’intraprendere la carriera docente e di trasformare il pensionamento in una fase di insicurezza anziché di legittimo riposo.

Rivolgiamo infine un appello diretto al Ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara: riconoscere l’insegnamento come lavoro usurante e intervenire per garantire una pensione dignitosa ai docenti non è una concessione, ma un atto di giustizia istituzionale. Chi ha formato cittadini, trasmesso valori costituzionali e promosso i diritti umani non può essere lasciato solo proprio nel momento in cui conclude il proprio servizio allo Stato.

prof. Romano Pesavento

presidente CNDDU

Segui Voce della Scuola