Filiera 4+2: dal 2026 a regime, con il cerino in mano ai DS
Dal 2026 il 4+2 va a regime: decisione ai DS con atto di indirizzo. La riforma è del Ministero, ma le contestazioni saranno tutte nelle scuole.
La scena è quella dell'evento "Orientati al Futuro", promosso da DIRIGENTISCUOLA al Museo MA*GA di Gallarate, davanti a una platea di dirigenti scolastici. Dal palco il ministro Giuseppe Valditara annuncia che per la filiera 4+2 la fase sperimentale è finita: dal 2026 il modello entra a regime, diventando parte stabile dell'ordinamento degli istituti tecnici e professionali. A moderare l'incontro è il direttore de "La Voce della Scuola", Diego Palma: non una semplice cornice, ma un contesto pensato per parlare direttamente a chi, nelle scuole, dovrà trasformare l'annuncio in atti concreti.
In realtà, la direzione di marcia era chiara già da settembre, quando il ministro aveva preannunciato la fine della sperimentazione e la messa a regime della filiera, affidando il ruolo di riferimento tecnico a Ettore Acerra, storico direttore generale dell'USR Campania, oggi in pensione ma ancora figura chiave nel raccordo tra amministrazione centrale e mondo della formazione tecnica. Il 4+2 non nasce a Gallarate: ci arriva, con i contorni politici già definiti. È qui, però, che si apre il capitolo più sensibile: non tanto cosa si vuole fare, ma come lo si vuole far passare nelle scuole.
Che il modello 4+2 sia, in astratto, una proposta interessante o un errore strategico non è il punto di questo ragionamento. Il punto è come lo si vuole far entrare nelle scuole, e cosa questa scelta procedurale rivela sulla tenuta complessiva del sistema di governance dell'autonomia scolastica.
La procedura: atto di indirizzo prima, collegialità dopo
La novità vera la introduce proprio Acerra, quando entra nel dettaglio della procedura. L'attivazione della filiera 4+2, almeno in avvio, non passerà da una deliberazione preventiva degli organi collegiali. Il primo passo sarà l'atto di indirizzo del dirigente scolastico; solo dopo il nuovo percorso verrà inserito e approvato nel PTOF, dove il collegio dei docenti tornerà formalmente in gioco. Tutto legittimo sul piano formale (forse): l'atto di indirizzo è competenza del DS, il PTOF resta atto collegiale. Ma è il disegno complessivo a fare la differenza: la decisione strategica viene impressa dall'alto, il confronto collegiale arriva quando l'inerzia della scelta è già in moto.
La platea dei DS coglie subito il punto. Quando Acerra chiarisce che non servirà un passaggio preventivo negli organi collegiali, in sala si alza un mormorio evidente. Non è semplice diffidenza: è la presa d'atto che la riforma li pone al centro di una (ennesima) futura stagione di scontri interni. Da un lato la retorica del "dirigente leader del cambiamento", dall'altro la prospettiva molto concreta di tornare al copione del "preside sceriffo", solo contro tutti quando l'atto di indirizzo verrà letto da docenti e personale come l'ennesima decisione calata dall'alto.
La strategia del palazzo: rafforzare i vertici per cambiare la scuola
A rendere la miscela ancora più instabile è la percezione, diffusa tra docenti e ATA, di trovarsi dentro una strategia precisa: quella del rafforzamento progressivo dei vertici consolidandone ruolo e autonomia decisionale, passando per un aumento significativo della retribuzione mentre i salari di docenti e ATA rimanevano sostanzialmente fermi. Non per una qualche forma di predilezione semi-corporativa, ma di segnale politico: il "palazzo" che ha scelto di puntare sui dirigenti per forzare verso un cambiamento di fatto, preso atto delle difficoltà a riformare la scuola in sede legislativa. Con il 4+2 che conferma questa linea.
Sul piano della percezione, però, il messaggio rischia di essere devastante: chi ha visto rafforzarsi posizione e retribuzione riceve dal Ministero il compito di "mettere in riga" chi guadagna meno e si sente sempre meno ascoltato, chiedendogli di adattarsi a un cambiamento deciso altrove. In molte scuole sarà difficile separare il giudizio sul metodo dal vissuto quotidiano di chi si sente, insieme, sottopagato e poco coinvolto.
Sul piano del merito, poi, non mancano le critiche al modello 4+2, letto come riduzione di fatto del percorso scolastico con ricadute sugli organici in un quadro demografico in calo. Ma queste sono obiezioni che riguardano la riforma in sé. Qui interessa un altro piano: quello del metodo con cui la si vuole attuare. Chiedere ai dirigenti di firmare un atto unilaterale di indirizzo significa collocarli, consapevolmente, al centro di un conflitto annunciato. La riforma è del Ministero, ma il front office della contestazione sarà l'ufficio del DS, collegio dopo collegio, consiglio di istituto dopo consiglio di istituto.
Il nodo irrisolto: una governance sospesa a metà
Il punto, però, non si esaurisce nel rapporto tra Ministero e presidi. La vicenda 4+2 mette a fuoco un problema strutturale: la governance dell'autonomia scolastica è rimasta sospesa a metà. Da anni il ruolo del DS si è rafforzato, mentre gli organi collegiali sono rimasti sostanzialmente fermi al modello degli anni Settanta. La legge 107 del 2015 conteneva una delega per intervenire su questo terreno, ma quella delega è rimasta lettera morta. Il risultato è un sistema che proclama la collegialità ma, nei momenti cruciali, funziona attraverso scorciatoie procedurali che spostano il peso delle decisioni su una sola figura.
La procedura pensata per il 4+2 si inserisce esattamente in questa crepa. Da un lato il Ministero evita di riaprire il cantiere, politicamente esplosivo, di una riforma degli organi collegiali. Dall'altro costruisce un bypass: l'atto di indirizzo anticipa la decisione, il PTOF arriva dopo, chiamato a formalizzare un percorso già tracciato. Così la collegialità rischia di ridursi a rito, mentre la sostanza delle scelte si gioca altrove. E quando le regole decisionali appaiono piegate alla necessità di "far presto", la fiducia interna si logora.
In questo quadro, la posizione dei dirigenti è delicata, quella di docenti e ATA è semplicemente sconfortante. Ai primi si chiede di "stare al gioco" ministeriale, dopo anni di rafforzamento retributivo e simbolico del loro ruolo. Ai secondi si chiede di accettare cambiamenti profondi – potenzialmente incidenti su orari, carichi di lavoro, prospettive occupazionali – in un contesto di salari stagnanti e margini di partecipazione percepiti come sempre più stretti. È il terreno ideale perché ogni atto di indirizzo venga letto non solo come scelta tecnica, ma come gesto di schieramento.
Non è la riforma, è il metodo: un modello di potere verticale
È prevedibile che prima o poi la questione sbarcherà davanti a un giudice: qualche collegio, qualche sindacato (già lo ha fatto la CGIL), qualche RSU contesterà la legittimità di specifici atti di indirizzo, chiedendo di chiarire il confine tra prerogative dirigenziali e ruolo degli organi collegiali. Non sarà solo una disputa sulla filiera 4+2, ma un contenzioso sul modo in cui si governa la scuola in Italia. E a quel punto la domanda non sarà più se il modello 4+2 sia, in astratto, interessante, ma se il sistema regga l'ennesima riforma gestita per via emergenziale, scaricandone il peso su chi ha meno margini di sottrarsi.
È qui che si colloca il vero nodo politico. Non si tratta di stabilire se il 4+2 sia una buona idea formativa. Si tratta di capire se sia sostenibile continuare a governare la scuola attraverso scorciatoie procedurali che aggirano il problema irrisolto della partecipazione democratica. Non è questione di anni di corso, di filiere o di ITS. È questione di potere, di responsabilità, di riconoscimento. Finché l'autonomia resterà un equilibrio instabile tra decisioni verticali e collegialità compressa, ogni innovazione rischierà di trasformarsi in un nuovo capitolo della stessa storia: un Ministero che decide, dirigenti chiamati a "tenere la linea", personale sottopagato che vive il cambiamento come imposizione.
La filiera 4+2, da questo punto di vista, è solo l'ultimo caso di una prassi consolidata. Il suo valore formativo potrà essere oggetto di valutazioni future. Quello che è già evidente, qui e ora, è il metodo: una riforma ministeriale, un atto di indirizzo dirigenziale, una collegialità ridotta a ratifica formale, un personale sottopagato chiamato ad adeguarsi. Non è la riforma in sé a essere sotto accusa, ma il sistema di potere che la usa come grimaldello per confermare un modello di governo verticale della scuola italiana. La riforma non è ancora entrata nelle classi, ma ha già indicato chiaramente chi dovrà reggerne l'urto e chi, ancora una volta, si sentirà messo di fronte al fatto compiuto.