La scuola sotto assedio: burocrazia, divisioni e la grande occasione mancata
C’è una domanda che aleggia, pesante, nei corridoi delle scuole italiane: che cosa è diventata la scuola oggi?
C’è una domanda che aleggia, pesante, nei corridoi delle scuole italiane: che cosa è diventata la scuola oggi? Non è una domanda retorica, né nostalgica. È una domanda politica, culturale, civile. Ed è una domanda che chi vive la scuola ogni giorno – docenti, dirigenti, studenti, famiglie – non può più eludere.
La scuola appare sempre più come un corpo affaticato, intrappolato in una ragnatela burocratica che soffoca il pensiero pedagogico e svuota di senso le responsabilità. Una burocrazia che non sostiene, ma controlla; che non libera energie, ma le disperde; che chiede rendicontazioni, piattaforme, adempimenti, mentre sottrae tempo alla relazione educativa, al confronto professionale, alla riflessione critica. Il paradosso è evidente: cresce l’apparato, arretra la missione.
L’ultimo anno scolastico è stato emblematico. Un susseguirsi di riforme, circolari, linee di indirizzo, sperimentazioni presentate come inevitabili e moderne. Ma sotto la superficie del cambiamento, la sensazione diffusa è quella di una scuola sempre più scollata dalla società reale, distante dagli studenti in carne e ossa, dalle loro domande, dalle loro fragilità, dalle loro potenzialità. Una scuola che parla il linguaggio delle competenze e dell’innovazione, ma fatica ad ascoltare chi dovrebbe essere il suo centro vitale.
Dentro questo quadro si consuma una dinamica tanto sottovalutata quanto devastante: la guerra tra poveri. È il divide et impera che attraversa i collegi docenti, i dipartimenti, le comunità professionali. Invece del confronto, lo scontro. Invece della collaborazione, la competizione. Si rivendicano ruoli, incarichi, titoli, certificazioni, come se l’identità professionale potesse reggersi su un elenco di qualifiche e non sulla qualità della relazione educativa. Si afferma il bisogno di imporsi, ma manca la capacità – o il coraggio – di dialogare, di ascoltare, di costruire visioni condivise.
Il risultato è una progressiva squalificazione della professione docente, spesso autoindotta. Si dimentica che insegnare non è esibire sapere, ma accompagnare; non è accumulare crediti, ma educere, tirare fuori ciò che già abita negli studenti. La conoscenza perde la sua funzione più alta: non più strumento per leggere la realtà con spirito critico, per distinguere il giusto dall’ingiusto, ma semplice mezzo funzionale al “saper fare”. Un sapere piegato alla logica della performance, dell’adattamento rapido, dell’ingresso nel mercato della vita “smart”, veloce, competitiva. Una vita misurata su successo, denaro, potere, o – all’opposto – su una nuova forma di schiavitù globalizzata e precarizzata.
Eppure la scuola dovrebbe essere l’antidoto a tutto questo. Dovrebbe essere il luogo del pensiero lento, della complessità, del dubbio. Il luogo in cui si impara a cooperare, non a primeggiare; a essere cittadini, non ingranaggi. Serve una visione politica vera, non cosmetica, che rimetta la scuola al centro della vita democratica e sociale del Paese. Non come slogan, ma come scelta strutturale. Una scuola che metta davvero gli studenti al centro, che non produca classifiche ma comunità, che formi persone libere e consapevoli, capaci di abitare un futuro incerto senza esserne schiacciate.
È un sogno? Forse. È un’utopia? Probabilmente sì. Ma è un’utopia necessaria. Una di quelle che nascono dall’osservazione quotidiana, dall’esperienza diretta di chi la scuola la vive da più prospettive: come docente, come padre, come osservatore privilegiato attraverso il racconto giornalistico del mondo dell’istruzione.
Per questo, alla vigilia delle vacanze, quando il rumore delle scadenze si attenua e resta il tempo del pensiero, la comunità educante dovrebbe fermarsi e ripetersi una domanda semplice e radicale, come un mantra: che tipo di dirigente, di insegnante, di studente voglio essere? E ancora: che ruolo voglio occupare nel grande puzzle della vita?
Se sapremo convergere su queste domande, forse potremo davvero avviare una rivoluzione educativa. Non violenta, non ideologica, ma profondamente socratica. Una rivoluzione fatta di domande scomode, di responsabilità condivise, di coraggio civile. Perché senza una scuola viva, critica e consapevole, non esiste futuro che valga davvero la pena di essere costruito.