Nella tradizione liturgica cattolica, l’Epifania celebra la manifestazione di Dio agli uomini attraverso suo Figlio. In sostanza, viene celebrata la manifestazione del Cristo ai Magi. Non è sempre stato così, e non dappertutto, pur all’interno del mondo cristiano. Il nome odierno, Befana, deriva dalla storpiatura della parola classica «epifania», per effetto di una normalissima aferesi (cioè, della caduta di un suono, o di un gruppo di suoni, all’inizio di una parola). Befana e Magi, allora, sono strettamente legati tra di loro, fino a sovrapporsi, e a confondersi, al giorno d’oggi.

La notte della Befana, nella tradizione contadina, è considerata una notte magica, durante la quale avvengono cose fuori dall’ordinario. In Italia, questa festa viene celebrata con tante usanze, regionali e locali, che ne riflettono, ciascuna, aspetti e significati differenti. La Befana porta i doni proprio in omaggio ai Magi, che portarono i doni a Gesù bambino (oro, incenso e mirra). Di recente, però, si è realizzata una sorta di sdoppiamento: a Natale, Babbo Natale dispensa i regali importanti; la Befana, poco dopo, il 6 gennaio, porta regali meno importanti, se non proprio cenere e carbone, per chi non si è comportato bene. La Befana, tradizionalmente, è rappresentata come una vecchia signora (brutta nell’aspetto, ma simpatica nei modi), che vola su una scopa, e che di notte lascia, nelle calze appese ai camini, regalini, dolci, ma anche cenere e carbone.

Il 6 gennaio del 1810, a Recanati, a soli dodici anni, Giacomo Leopardi scrisse e inviò una lettera a una signora amica di famiglia, fingendosi la Befana, per il divertimento dei suoi fratellini (Carlo e Paola), il cui incipit è il seguente:

Carissima Signora,

giacché mi trovo in viaggio volevo fare una visita a Voi e a tutti li Signori Ragazzi della Vostra Conversazione, ma la Neve mi ha rotto le Tappe e non mi posso trattenere. Ho pensato dunque di fer­marmi un momento per fare la Piscia nel vo­stro Portone, e poi tirare avanti il mio viag­gio. Bensì vi mando certe bagatelle per code­sti figlioli, acciochè siano buoni ma ditegli che se sentirò cattive relazioni di loro, que­st’altro Anno gli porterò un po’ di Merda.

La presenza, nel testo, di alcuni vocaboli (piscia, merda) lascia il lettore piuttosto perplesso ma divertito, e ci restituisce un’immagine di Giacomo Leopardi decisamente più vicina al vissuto quotidiano di un adolescente, che gioca con i fratellini.

Il racconto dei «magi», giunti dall’Oriente, fino a Betlemme, guidati da una stella, per adorare Gesù bambino, e offrirgli doni, è presente soltanto nel vangelo di Matteo (II, 1-14), tra i testi sacri canonici:

Alcuni Magi giunsero da Oriente a Gerusalemme e domandavano: “Dov’è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella e siamo venuti per adorarlo”. All’udire queste parole il re Eride si turbò […].

Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti poi in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero il ritorno al loro paese.

L’evangelista Matteo non ci fornisce il numero dei magi, ma racconta che giunsero dall’Oriente, guidati da una stella, e adorarono il Bambino. La Chiesa considera questo racconto di Matteo storicamente fondato. L’episodio dei magi, comunque, ha suscitato, fin dai primissimi secoli del cristianesimo, sia in Oriente che in Occidente, la nascita di una serie di leggende. Innanzitutto, questo episodio fu ripreso in vari vangeli apocrifi (cioè, vangeli non riconosciuti nel canone cattolico), come il Protovangelo di Giacomo, il Vangelo dello Pseudo Matteo, il Vangelo arabo-siriaco, il Vangelo armeno dell’infanzia (proprio in quest’ultimo vangelo apocrifo, per la prima volta, si legge che i magi fossero 3, forse, in ragione dei 3 doni offerti al Bambino). La tradizione popolare, successivamente, ha visto nei 3 magi, i rispettivi rappresentanti delle 3 razze umane conosciute anticamente (bianca, gialla, nera). Consegnando i loro doni al Bambino, i magi (denominazione che deriva da «mag», dono), di fatto ne riconoscevano l’autorità, in quanto centro illuminante di ogni fede. Gesù il Cristo come «luce» è sottolineato, in modo particolare, dal Protovangelo di Giacomo:

…ed ecco una nuvola luminosa adombrava la grotta… E subito la nuvola si dissipò dalla grotta e apparve una grande luce nella grotta, tanto che i nostri occhi non la potevano sopportare.

Anche il Vangelo arabo-siriaco dell’infanzia insiste sulla «luce»:

[la grotta, infatti, viene descritta come] piena di luci, più belle che il fulgore di lucerne e di torce e più splendenti del chiarore solare.

Come precisa anche il vangelo di Matteo, l’«oro» donato dai magi rappresenta la regalità di Gesù il Cristo; l’«incenso» la sua natura sacerdotale; la «mirra» in quanto prefigurazione della passione e della morte di Gesù (l’evangelista Giovanni precisa, infatti, che Gesù fu sepolto con mirra e aloè). Le comunità cristiane orientali, comunque, alla mirra attribuivano il valore simbolico della sapienza (Cristo taumaturgo). Lo stesso Marco Polo, nel suo Milione, riferisce di questa tradizione interpretativa:

Raccontano quelli del luogo che tanto tempo fa tre re della loro regione andarono a visitare un profeta nato da poco; e portarono con loro tre offerte, oro, incenso e mirra, per poter riconoscere se quel profeta era Dio o re o sapiente. Pensavano: se prende oro è un re, se prende incenso è un Dio, se prende mirra è un sapiente […]. E il bambino prese tutte e tre le offerte.

Ancora, sempre nel Milione, Marco Polo racconta che i magi:

…arrivati al luogo dove il bambino era nato da poco, il più giovane dei tre andò a vederlo da solo: e lo trovò che somigliava a lui stesso e pareva avesse la sua età e la sua fisionomia. Uscì stupefatto. Dopo di lui entrò quello di media età, e il bambino gli parve com’era parso all’altro, della sua età e della sua fisionomia. Anche lui uscì fuori stupefatto. Poi entrò il terzo che era di età maggiore, e gli accadde la stessa cosa che agli altri due […]. Decisero di andarci tutti insieme […] e lo trovarono dell’aspetto e dell’età che egli aveva, essendo nato da tredici giorni.

Il racconto di Marco Polo pone l’attenzione al cuore del mistero cristiano stesso, e cioè che Gesù il Cristo è il presente, il passato e il futuro. Egli è il Tempo. Egli abbraccia tutto il Tempo. Infine, manifestandosi come bambino, allorquando i magi entrano assieme, trasmette il messaggi che la somma delle tre età (dell’uomo) non è la morte, ma la nascita. Ri-nascere nel Cristo, cioè, nel Tempo infinito.

La leggenda del quarto re mago è stata scritta, per la prima volta, nel 1895, da Henry van Dyke, scrittore statunitense, che pubblicò il romanzo The Other Wise Man (in traduzione italiana: Il quarto re mago). Il romanzo racconta la storia di Artabàn, quarto re mago, che non riuscì a compiere il viaggio in compagnia degli altri tre magi, perché lungo la strada, nell’intento di raggiungere i suoi tre colleghi, si attardò in opere di misericordia. Artabàn, quindi, giunse in ritardo a Betlemme, nei giorni in cui la sacra famiglia era già fuggita in Egitto, per evitare l’ira di Erode. Anche Artabàn reca con sé tre doni, da dare al Bambino: uno zaffiro, un rubino e una perla molto preziosa. Mosso dal desiderio di rendere omaggio al Bambino, si recherà in Egitto, e in molti altri paesi, alla ricerca di Gesù, per anni e anni, invano. Dopo ben 33 anni di ricerca, Artabàn, eterno pellegrino, giungerà a Gerusalemme, giusto in tempo per assistere alla crocifissione di Gesù. Anche qui il quarto re mago farà opere di misericordia, impegnando l’ultimo dei suoi tre doni destinati al Bambino nato a Betlemme, salvando, con quella perla preziosa, una giovane donna che stava per essere venduta come schiava. Colpito accidentalmente da una tegola, Artabàn morirà poco dopo, sentendo una voce gli dice che anche i suoi doni sono stati accettati dal re dei re.

Nel 1986, lo scrittore italiano Carlo Sgorlon, già autore di libri di successo e vincitore di prestigiosi premi, come il Campiello e lo Strega, pubblicò un libro di racconti, intitolato Il quarto re mago, nel quale troviamo la storia (leggendaria e affascinante) proprio del quarto re mago, in un racconto piccolo ma delizioso. Sgorlon ci restituisce riflessioni, dubbi e speranze di Artabàn:

Finalmente giungemmo a Gerusalemme, e qui riuscii a sapere di sicuro che i tre sapienti vi erano passati per recarsi nel villaggio di Betlem […].

Arrivato a Betlem, non trovai nulla di ciò che aspettavo. Quasi nessuno si ricordava più il passaggio di gente di riguardo, con vestiti di foggia caldea, con cavalli, servi e cammelli. Invece giovani madri e padri erano ancora sconvolti perché il maledetto Signore di Gerusalemme aveva ordinato di uccidere tutti i loro figli maschi in tenera età […].

Avevo preso alloggio in una casetta abbandonata, dove era rimasto soltanto qualche attrezzo da falegname. Mi dissero che apparteneva a un ebreo riuscito a fuggire prima della strage con la sua giovane sposa, Myriam, e un bambinello di pochi mesi. Chi lo diceva andato in Egitto e chi a Nord […].

Con un vecchio asino sfinito come me, cominciai a peregrinare lungo il fiume, fermandomi in tutti gli accampamenti di nomadi, rizzando le orecchie ogni volta che sentivo parlare un dialetto ebraico […].

Tutto ciò che farò nel poco tempo che ancora mi separa dalla morte, sarà di continuare a girare nei villaggi lungo il Nilo, da Alessandria a Menfi, e forse anche più a Sud, alla ricerca del bambino ebreo che secondo Balthasar è un grande profeta, per la cui nascita si è mossa una stella che io non sono neppure riuscito a vedere.

Per chiudere questa mia mini-rassegna sulla presenza dei magi nella letteratura italiana, aggiungo che appare piuttosto banale la poesia di Gabriele D’Annunzio, intitolata I re magi e inserita nella prima parte delle Laudi (la sezione del Cielo), tranne che per un paio di guizzi, come il verso «e la terra si ingiglia», e poco altro. Alludendo, con questa immagine di candore e di purezza, al fatto che la nascita di Gesù avesse segnato, per il mondo intero, l’inizio di una nuova era, come la stessa adorazione dei re magi, i re sapienti, in rappresentanza di tutto il mondo antico e pagano, stava lì a testimoniare. Stupisce che si tratti dello stesso Gabriele D’Annunzio che, in alcune sue scaramucce amorose, con la Musa di turno, amava firmare le sue lettere, molto più prosaicamente, con l’espressione «il befano alla sua befana».

Suggestiva, invece, e potente, l’immagine dei magi come eterni pellegrini, migranti e viandanti, che emerge dalla poesia di Giorgio Caproni (Sonetto d’Epifania): i magi come figura dell’«anima eterna dell’uomo che cerca». Al contrario, fiacca, forzata e fredda, la poesia Epifania di Mario Luzi, infarcita di vocaboli eruditi, e ossessionata dall’intento di attualizzare l’evento. Musicalità e ritmo da filastrocca popolare, invece, caratterizzano la (bella) poesia di David Maria Turoldo, Epifania, con il verso conclusivo che riassume tutte le notti consumate nell’attesa della stella, da parte dei magi, a scrutare il cielo: «fino a bruciarsi gli occhi del cuore!».

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