Intendo ricordare il 5 maggio, in memoria dell’ode di Alessandro Manzoni, alla maniera mia, pop e irriverente (ma sempre con onestà intellettuale). Tutti sanno che Manzoni, nel luglio del 1821, dopo aver appreso, attraverso la «Gazzetta di Milano», dell’avvenuta morte di napoleone, in Sant’Elena, scrivesse di getto la sua ode, il cui celeberrimo incipit è il seguente: «Ei fu».

Con questo mio intervento, intendo chiarire, vieppiù, quanto ho già sostenuto nel mio libro Dimenticare Manzoni (ERF Edizioni 2024), e cioè la natura nient’affatto civica di Alessandro Manzoni, nel suo tempo, intellettuale opportunista e nascosto, prudente fino al calcolo del vantaggio personale, della più meschina convenienza, nient’affatto modello di cittadinanza attiva, tanto da farmi sostenere, con forza, la sua odierna inadeguatezza, anzi, la sua odierna pericolosità, in un percorso di formazione delle giovani generazioni al senso di partecipazione attiva alle cose del mondo. La lettura delle sue opere, infatti, spinge al qualunquismo e all’opportunismo, al calcolo della convenienza, come, del resto, egli fece, per tutta la vita, modello di indifferenza, di prudenza, e di ignavia. Sarebbe sufficiente rinviare il lettore al «sugo» della storia, pronunciato dai due sposi (ex promessi), che è una enciclopedia degli orrori del qualunquismo (con i suoi martellanti «Ho imparato…», che invitano, ieri come oggi, a non aderire agli scioperi, a non parteciparvi, a non parlare in pubblico, a non ribellarsi, a non manifestare, a non, a non, a non…). Altro che educazione civica!

In modo particolare, in questo mio intervento, in rapporto a Dante Alighieri, padre della lingua e della poesia italiana, fulgido esempio di intellettuale a schiena dritta, che patì, per un ventennio, fino alla morte, l’esilio e la vita raminga, in difesa delle libertà del Comune di Firenze, dalle mire di conquista di papa Bonifacio VIII, e del partito dei guelfi neri, intendo dimostrare i diversi tradimenti di Alessandro Manzoni, nei confronti del magistero intellettuale e poetico di Dante.

Manzoni tradì Dante Alighieri più volte, scientemente, e con una buona dose di invidia e di perfidia. Lo tradì sul versante linguistico, ignorando e rovesciando le tesi sulla «lingua volgare», che Dante aveva espresso nel trattato De vulgari eloquentia, scritto nei primissimi anni d’esilio (intorno al 1304), nel quale, su base scientifica, Dante ammoniva che, nelle contrade d’Italia, tra la grande varietà di parlate e di dialetti, se mai fosse sorta una parlata unica, quella sarebbe stata il frutto di una koinè, di una mescolanza, e non, piuttosto, il frutto di una imposizione legislativa, governativa, come si giunse, con gli auspici e con le manovre di Manzoni, nel corso del XIX secolo (giusto provvedimento dell’allora ministra Emilio Broglio, sodale e amico di Manzoni). Le lingue non nascono per legge, per decreto legge, ma dalla loro naturale evoluzione tra i parlanti, sia a livello scritto, che parlato, con una dinamica interna, magari, lenta, ma libera, autonoma dalle imposizioni (dalle forzature) politiche. L’idea dantesca, intorno al «volgare illustre» d’Italia, per il tramite di Gian Giorgio Trissino, linguista e grammatico del XVI secolo, sarebbe arrivata fino al tempo di Manzoni, visto che l’allora maggior linguista, Graziadio Isaia Ascoli, ne rilanciava la validità. Dibattito scientifico e dinamiche interne, e democratiche, ignorate da Alessandro Manzoni, che, invece, preferì imporre, grazie al ministro Broglio, la sua idea di unità linguistica, cancellando le altre parlate d’Italia, gli altri dialetti, le loro culture e le loro ideologie, le loro visioni del mondo, dell’uomo, della vita.

Manzoni tradì Dante Alighieri con riferimenti e con furti lessicali e situazionali, attingendo a piene mani al poema dantesco, e inserendo, in più punti del suo romanzo, citazioni e riferimenti, il più delle volte con tono canzonatorio, se non di vero e proprio scherno, nei confronti di Dante Alighieri. Dimostrerò, a breve, in un saggio sistematico, al quale sto lavorando, i diversi furti manzoniani, e i suoi diversi tradimenti. Qui, per oggi, mi limito a citare, forse, il più clamoroso di questi travisamenti e di questi tradimenti. In un rigo del capitolo XXIII dei Promessi sposi, infatti, Manzoni paragona Dante Alighieri niente di meno che a don Abbondio, al tremebondo e ignavo don Abbondio:

«Dante non istava peggio nel mezzo di Malebolge»

Vengono così definite da Dante 10 bolge (fossa circolari), che formano l’ottavo cerchio dell’Inferno, tutte di «pietra e di color ferrigno», collocando, in ciascuna di esse, i fraudolenti. Il primo tradimento consiste nell’aver paragonato Dante a don Abbondio, all’ignavo don Abbondio, forte con i deboli, e debole con i forti. Dante, nella vita e nelle opere, non fu mai ignavo, mai, tutt’altro. Si schierò contro Bonifacio VIII, da priore di Firenze, in difesa del suo Comune, pur sapendo che, così facendo, sarebbe andato incontro alle ire (non solo verbali) del papa, e di tutto il potentissimo partito dei guelfi neri. E lo fece, senza alcun ripensamento, e senza alcun calcolo di convenienza. Non così, in vita e nelle opere, il Manzoni, che, al contrario di Dante, per tutta la vita, non prese mai, dico mai, parte attiva a una sola azione del risorgimento italiano. Se ne stette sempre nascosto, riparato, protetto, raccomandato, da gran pusillanime e prudente. Non così, tanto per fare un altro nome, Ugo Foscolo, che pur aveva disperato bisogno di mettere assieme il pranzo con la cena, di guadagnare qualcosina, e tirare a campare; ciononostante, Foscolo non si piegò mai, dico mai, al volere né degli austriaci, né di Napoleone, per il quale pur aveva provato simpatie. A costo di soffrire la fame e l’esilio, Foscolo, come Dante, restò libero, restò a schiena dritta, e si fece partigiano. Non dunque indifferente; non dunque ignavo; non dunque calcolatore e opportunista. Ma partigiano.

Il tradimento della citazione dantesca, che ho riportato sopra, comunque, è duplice, sia per l’ingiusto accostamento a don Abbondio, autentico alter-ego di Manzoni (e non di Dante), sia per l’esplicita menzione della baratteria. Nella quinta bolgia, del cerchio ottavo dell’Inferno dantesco, infatti, scontano la loro colpa i barattieri. Quale fu la falsa accusa imbastita da papa Bonifacio VIII contro Dante Alighieri? La baratteria. E Manzoni, invidioso e perfido, cosa scrive qui? Scrive di baratteria, quasi a rilanciare le false accuse del papa medievale, nei confronti dell’innocente Dante, e quasi a volerle avallare. Vergognoso. Raffinata perfidia dell’ignavo Manzoni.

Le nostre studentesse, i nostri studenti hanno bisogno, dunque, di ben altri maestri, oggi, che il Gran Lombardo, pavido, ignavo, invidioso e perfido. Maestro di qualunquismo e di opportunismo. Abilissimo nel calcolo di convenienza, scrittore (noioso) da evitare, da non imporre più come lettura scolastica obbligatoria. La strada per giungere al possesso di una cittadinanza attiva, oggi, nelle nostre aule, deve prevedere ben altre letture, e ben altri «maestri», che i Promessi sposi, e Alessandro Manzoni. Desidero chiudere questo mio intervento, con una indicazione pop, e cioè con il rinvio a una canzone di Giorgio Gaber, nella quale, quel grande interprete della canzone pop italiana, che fu Gaber, ricordava che libertà è partecipazione; libertà non è starsene sull’albero, starsene nascosti e riparati (come sempre fece Manzoni). Libertà è prender parte, come sempre fece Dante Alighieri. Libertà è esser partigiani.

per chi volesse ascoltare la canzone di Giorgio Gaber, La libertà:

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